Del nuovo libro di Giorgio Agamben, Pulcinella ovvero Divertimento per li regazzi (Nottetempo, pp. 142, euro 27) anzitutto sorprende il discorso in prima persona, il carattere autobiografico, quasi testamentario. Non è però la descrizione dell’approssimarsi di una fine, ma dell’interrompersi di un itinerario. Il ritrovarsi in una situazione dalla quale fare un bilancio, ricapitolare. All’insegna dei dipinti e delle tavole che Giambattista e soprattutto Giandomenico Tiepolo dedicano a Pulcinella, quello di Agamben è un itinerario comico. E ciò non sorprende se si considera l’attenzione che Agamben ha dato a questo genere. Si consideri almeno lo scritto Comedìa sul poema dantesco in Categorie italiane. Come nella Comedìa anche nel Pulcinella di Agamben non si incontra soltanto l’autore-personaggio, ma anche tanti altri personaggi che a loro volta parlano in prima persona e compongono una scena teatrale con sdoppiamenti, coro e persino scenari quali sono le riproduzioni dei dipinti e delle tavole dei Tiepolo e altre immagini. Pulcinella è un libro che vorrebbe essere messo direttamente in scena. Un libro e un canovaccio della commedia dell’arte. Non solo da leggere, ma anche da vedere. Da ascoltare, per le diverse voci e il dialetto napoletano tradotto dal poeta Francesco Nappo.

Un libro nel quale il come è scritto è filosoficamente importante almeno tanto quanto il che cosa vi è scritto. Anche nei libri di maggior impegno teoretico è nota la forza poetica che Agamben sa dare al suo discorso e quanto questa sia non soltanto accessoria. In Pulcinella a questa vena poetica Agamben chiede però di più del solito. Sotto questo aspetto un paragone potrebbe essere fatto con Idea della prosa. Lì protagonisti erano soprattutto la scrittura e il pensiero; qui il carattere e il personaggio filosofici. Lì il mezzo erano soprattutto i supporti della scrittura (la tavola o la pagina sulla quale si scrive) e del pensiero (l’idea). Qui il mezzo è ciò che sta tra carattere e personaggio: la maschera, la persona. L’itinerario comico di Agamben-Pulcinella-Tiepolo è dunque anche un itinerario nietzscheano (si pensi a quanto proprio il pensatore della Nascita della tragedia abbia investito nella maschera e nel riso; vedi l’introduzione alla terza edizione di quel libro).

Analogamente a quello di Giandomenico Tiepolo che si ritira nella villa di Zianigo per lavorare al ciclo di affreschi su Pulcinella in un momento drammatico per la repubblica veneziana che termina la sua storia consegnandosi goffamente a Napoleone, il gesto comico di Agamben di trasfigurarsi in una maschera della commedia dell’arte non sembra appropriato ai tempi politicamente difficili che viviamo. Qual è, se c’è, il motivo comico adatto a Pulcinella nella situazione politica odierna? Ma la forza di Pulcinella sta precisamente nel disattendere sia il reagire contro, sia l’assecondare questa situazione politica. Pulcinella gioca un altro gioco, cambia le carte in tavola, disinnesca la lotta politica stessa, gesticola funambolicamente persino la pretesa di gestire la politica come governance. Pulcinella indica cosa fare quando non c’è apparentemente più niente da fare. E lo può solo indicare, alludere, perché non si tratta di un significato politico diverso che si contrappone a quello della situazione in cui siamo. Ciò sarebbe ricadere nella stessa trappola dalla quale vorremmo uscire. Per dirla linguisticamente, Pulcinella non indica una parole, ma una langue, non un significato o contro-significato, ma una grammatica diversa. Pulcinella non è un soggetto, ma un tramite; non è un leader al senso, ma è un gesto.

Come Dante nei primi versi della Comedìa, Pulcinella è lo sdoppiamento del «mezzo». Nel plurale di «nostra vita», «mezzo» può indicare la misura della metà tra inizio e fine. Nella prima persona del verso successivo «mezzo» viene a indicare invece lo smarrimento di chi ha perso ogni misura (in «mezzo» alla «selva oscura», come di chi si ritrova in mezzo a una strada, in mezzo ai guai) e che dunque non può assumere il senso della propria vita come via d’uscita, ma proprio per questo può abbracciare quello della «nostra vita» nella quale inizio e fine convergono e si ritrovano misurati, ricapitolati. Tutto ciò per far inceppare la pretesa politica del soggetto, della responsabilità tragica di chi si è, invece di quello che di volta in volta comicamente ci si arrangia a poter e poter non fare.