«La cosa più strana nei monumenti è che non si notano affatto. Nulla al mondo è più invisibile. Non c’è dubbio tuttavia che essi sono fatti per essere visti, anzi, per attirare l’attenzione; ma nello stesso tempo hanno qualcosa che li rende, per così dire, impermeabili, e l’attenzione vi scorre sopra come le gocce d’acqua su un indumento impregnato d’olio, senza arrestarvisi un istante». In questo breve frammento, tratto dalle Pagine postume pubblicate in vita, Robert Müsil inquadra – con quell’ironia grave che ne caratterizza l’intera produzione letteraria – il più significativo dei cortocircuiti che si vengono a istituire nel delicato rapporto tra volontà e capacità commemorativa. Con il procedere del tempo, molti tra i monumenti che definiscono il paesaggio pubblico denunciano – nella noncuranza dell’individuo – il progressivo anacronismo della propria esistenza: diverse generazioni sono chiamate a ricordare personaggi ed episodi storici differenti.
Ridotte a meri elementi decorativi, tali opere sembrano avere perduto, pezzo a pezzo, tutto quell’insieme di caratteri che dovrebbero costituirne l’essenza. Se – come scriveva Regis Debray – la produzione di immagini trova la propria origine fondativa nella ricerca umana di una eternità del corpo (e dello spirito) biologicamente irraggiungibile, tale elemento di eternizzazione acquisisce proprio nelle opere monumentarie e nelle architetture celebrative una importanza sostanziale. Inoltre, giacché la volontà di conservare la memoria di una personalità esemplare, di un particolare gruppo di individui o di un evento storico, sottende inevitabilmente il tentativo di cementare (se non di costituire dalle origini) l’identità collettiva di una comunità o di una intera nazione, la natura commemorativa (e, in quanto tale, inevitabilmente funeraria) di simili opere si discioglie nel loro essere, al contempo, strumento eminente di manifestazione e di rappresentazione del potere. Quanto appare della loro figura non è che la traccia esteriore di un preciso progetto, primariamente politico, sociale e culturale, che si muove all’interno di una pianificazione spaziale e temporale sensibilmente più ampia.
Lapidi, monumenti ed edifici celebrativi nascondono, nella solidità della pietra e del metallo che danno loro forma, narrazioni ben più articolate di quelle denunciate, superficialmente, dalla linearità estetizzante e perfettamente risolta delle loro forme plastiche. Nella necessità di farsi simboli unitari, di essere concordemente riconoscibili e condivisi dall’intera comunità coinvolta, la storia che essi raccontano assume, frequentemente, una funzione conciliante e consolatoria. Processi di unificazione e di liberazione nazionale, di sviluppo sociale, politico e tecnologico, ma anche eventi drammatici o personaggi rilevanti assumono la compattezza monolitica (perché svuotata di qualsivoglia criticità) necessaria a generare una coesione. Questi baluardi della memoria agiscono mediante inevitabili semplificazioni e oscuramenti intenzionali, se non attraverso vere e proprie riscritture.
Decifrare adeguatamente simili oggetti è un processo faticoso, poiché richiede di ricostituire quella trama impercettibile e complessa (a essi sottesa) formatasi dal fitto intrecciarsi di elementi non esclusivamente estetici o storico-artistici. Proprio questa è l’operazione felicemente intrapresa in Memorie di pietra. I monumenti delle dittature, a cura di Gian Piero Piretto (Raffaello Cortina, pp. 276, euro 25,00). Nel corso del libro (articolato in dieci saggi critici) il rapporto tra produzione monumentale e costruzione della memoria collettiva viene analizzato nel contesto particolare dei regimi «totalitari» novecenteschi, che – relativamente a questa tematica – rappresentano, senza ombra di dubbio, un oggetto di studio privilegiato. Facendo uso di un approccio fortemente interdisciplinare (che spazia dall’architettura all’antropologia, dalla filosofia alla storia, dagli studi visuali a quelli letterari) e senza alcuna pretesa di esaustività o di completezza, i diversi contributi analizzano efficacemente tanto i progetti e le opere realizzate, quanto specifiche politiche architettonico-monumentarie che hanno vista la luce nell’Italia fascista, nella Germania nazista e nella Repubblica Democratica Tedesca, nell’ex Unione Sovietica e nella Jugoslavia di Tito, come a Cuba o nella Corea del Nord. «I Paesi coinvolti non coprono, per ovvi motivi, tutte le possibilità che la situazione universale offre a chi si voglia occupare di rovine o macerie architettoniche, estetiche della politica, ideologie manifeste o criptate, riscontri socioculturali legati a globalizzazioni, nazionalismi, derive post-totalitarie e rimpianti più vicini a mitologie emotive e personali che alla storia».
Tuttavia – al di là del contenuto precipuo di ciascun contributo – i diversi saggi riescono a proporre (attraverso il loro utilizzo) modalità analitiche idonee allo studio dell’argomento nella sua complessità, non limitandosi così a produrre delle semplici letture critiche. Ripercorrendo le fasi che hanno portato alla produzione di complessi architettonici o di semplici opere commemorative, alla loro successiva distruzione o conservazione, sino a una eventuale rielaborazione o risignificazione (più o meno recente) degli stessi, si mette in atto un processo conoscitivo e di riflessione, riguardo allo statuto e alle trasformazioni dell’arte celebrativa.
«I lieux de mémoire sono creati da un gioco di memoria e storia, da un’interazione di due fattori che trova risultato nella loro reciproca sovradeterminazione. Per cominciare, è necessaria la volontà di ricordare. Se dovessimo abbandonare questo criterio saremmo prontamente trasportati a riconoscere virtualmente tutto come degno di ricordo». Il solo errore che non deve mai essere commesso è quello di non interrogarsi riguardo alle ragioni e ai modi in cui una precisa memoria si è, con il tempo, costituita e consolidata.