Nella mattinata di oggi, al convegno «Globalizzazione e diritti fondamentali, a 40 anni dalla Dichiarazione universale dei diritti dei popoli» interverrà anche il professore argentino Daniel Feierstein. Ricercatore presso diverse università (Conicet, Untreb, Uba), ex presidente della International Association of Genocide Scholars e membro del Tribunale permanente dei popoli, Feierstein ha scritto libri importanti sul tema del genocidio. Nei suoi studi emerge un filo conduttore tra il genocidio perpetrato dal nazismo tra il 1933 e il 1945 e quanto è accaduto in Argentina tra il 1974 e il 1983.

Perché? Non teme di «banalizzare» l’Olocausto?

Il comune filo conduttore tra i distinti processi genocidi nel corso della modernità si lega al progetto di trasformare l’identità di un popolo attraverso l’annichilimento di una parte dello stesso e al terrore generato dalla struttura dei campi di concentramento. Una considerazione che guida le affermazioni del creatore del concetto di genocidio, l’avvocato ebreo-polacco Raphael Lemkin, quando definisce il genocidio «la distruzione dell’identità nazionale degli oppressi e l’imposizione dell’identità nazionale degli oppressori». In questo senso, in entrambi i casi si tratta di genocidio. Naturalmente questo non vuol dire che l’annichilimento realizzato dal nazismo e quello eseguito dalla dittatura civico-militare argentina siano equivalenti: non possono essere paragonati né per entità, né per metodo, né per modalità di legittimazione o partecipazione della popolazione. Quel che però mi ha sempre interessato segnalare con il concetto di genocidio (che, in base alla definizione si applica a entrambi i casi) è il progetto comune: la distruzione dell’identità di un popolo (nel caso del nazismo, quella dei popoli dell’Europa centrale, nel caso della dittatura civico-militare, quella del popolo argentino), perché è importante capire che obiettivo di un processo genocida non sono solo i gruppi perseguitati e annichiliti, ma l’insieme della popolazione, la cui identità finisce per essere trasformata dal terrore e dall’assenza di questi gruppi. Le identità dei popoli della Germania, della Polonia, della Lituania, dell’Ungheria, della Jugoslavia, e financo della Russia non possono essere le stesse senza la presenza degli ebrei, dei gitani, dei dissidenti politici e degli altri gruppi annichiliti dal nazismo. E lo stesso è accaduto con l’identità del popolo argentino a partire dall’annichilimento dei gruppi sindacali, di quartiere, politici, studenteschi, religiosi.

Qual è stato il suo impegno nella fase dei processi ai repressori che si è dispiegata durante i governi Kirchner e come affronta ora il ritorno delle destre e il cambio di indirizzo?

Sono sempre stato a fianco dei movimenti popolari e per i diritti umani. Ho accompagnato la lotta contro l’impunità e analizzato gli effetti terribili del genocidio. Una lotta che ha attraversato diversi momenti: la possibilità di portare a giudizio le Giunte militari nel 1985, le leggi di impunità, gli indulti, i processi all’estero. E bisogna riconoscere ai governi dei Kirchner la democratizzazione della Corte suprema di giustizia e l’annullamento delle leggi di impunità che hanno permesso di riaprire i processi in Argentina a partire dalle decisioni parlamentari e dalla dichiarazione di incostituzionalità dell’impunità. Fino a oggi questo non è cambiato, nonostante l’esistenza di un discorso che cerca di far retrocedere le discussioni agli anni ’80. Un tentativo recente contro il quale il movimento popolare argentino difenderà con fermezza quel che ha conquistato attraverso la lotta. Il mio impegno è sempre stato nelle organizzazioni popolari, mai nei governi.

Lei ha analizzato anche altri genocidi come quello dei tamil nello Sri Lanka. Ritiene che la dinamica del genocidio sia cambiata nel secolo XXI?

Direi che vi sono alcune differenze, ma non precisamente nel caso dei tamil o del Rwanda. Il modo classico di utilizzare il genocidio nel secolo XX ha avuto per obiettivo quello di distruggere l’identità di un popolo a partire dell’eliminazione di gruppi che ne facevano parte e la persecuzione di qualunque progetto di autodeterminazione, autonomia culturale e, in particolare, di qualunque possibilità di assumere il pluralismo identitario che impone qualsiasi stato moderno. Questo è continuato molte volte nel secolo XXI. Tuttavia, l’esperienza juloslava inaugura un altro modo di utilizzo del terrore genocida: il progetto di distruzione della comunità statale, la sua implosione e riduzione a mini-Stati che cercano omogeneità etnica. Questa è la peculiarità di alcuni progetti genocidi del secolo XXI: la distruzione di molte entità territoriali in Medioriente o in Africa come Iraq, Afghanistan, Siria, Libia, tra gli altri. Questo sì è un altro progetto, articolato però con obiettivi distinti e che, a mio modo di vedere, esprime la logica del genocidio del secolo XXI, benché continuino a esistere casi più simili alle esperienze del secolo scorso.

Com’è cambiato il ruolo del Tribunale permanente dei popoli in questo secolo nel quale le organizzazioni internazionali hanno servito gli interessi di guerra delle grandi potenze decidendo, per esempio, di lasciar passare il massacro di Gaza ma di intervenire in Libia?

Al momento della creazione del Tribunale permanente non esisteva una «giustizia penale internazionale». Pertanto, il suo ruolo fondamentale era quello di denunciare le situazioni ignorate dalle istituzioni nazionali, regionali e internazionali. Però con la creazione di una Corte penale internazionale, altre funzioni sono diventate importanti, giacché quella «giustizia internazionale» si è rivelata essere giustizia dei potenti che, anziché risolvere e intervenire nelle situazioni di ingiustizia, le ha ignorate o promosse. Quindi ora il Tribunale permanente ha di fronte una doppia sfida: non solo dare visibilità alle situazioni di oppressione, persecuzione e violazione dei diritti dei popoli, ma anche indicare la struttura che le legittima e distorce, ovvero tutto il modello di «intervento umanitario» che si è venuto a determinare, e che si è trasformato in uno strumento per legittimare la violazione della sovranità degli Stati nell’intento di appropriarsi delle risorse con la scusa della lotta per la difesa dei diritti umani, come si può vedere con chiarezza in casi come quelli dell’Iraq o della Libia.

Il Tribunale permanente ha anche un ruolo nella situazione del Messico, dove i diritti umani vengono calpestati. Qual è il bilancio della vostra attività?

I principali progressi ottenuti riguardano innanzitutto la visibilità dei casi ignorati dai media egemonici o dalle strutture istituzionali, ma anche l’aver dato la possibilità ai movimenti sociali di portare avanti azioni organizzate che hanno permesso loro di emergere come movimenti organizzati, di costruire legami e coordinamento, rendere visibili i loro sforzi e l’entità della violazione dei diritti, che in Messico è davvero scandalosa. Ovviamente vediamo i limiti del nostro lavoro: gli effetti delle azioni del Tribunale permanente sono a medio e lungo termine, ed è molto duro constatare l’esistenza di situazioni di enorme gravità come quella del Messico e non poter intervenire immediatamente. Però questo non è il ruolo del Tribunale permanente, che non è stato creato per intervenire, ma che costituisce una sorta di istanza morale, a partire dal riconoscimento dell’integrità etica dei suoi giudici. Una istanza morale che richiama l’attenzione su situazioni che non possono continuare a essere ignorate dall’insieme dell’umanità. Il suo ruolo è quello di cercare di articolare i movimenti sociali in tutto il mondo per generare una maggior solidarietà, per accompagnare chi soffre o unire quelli che subiscono le conseguenze del potere egemonico.

In tutta l’America latina, con il ritorno delle forze conservatrici,si rinnova l’attacco ai diritti umani, a partire da quello ai diritti elementari. Qual è il suo pensiero?

Effettivamente c’è stato un sensibile ritorno indietro in vari paesi della regione, prodotto del contesto internazionale ma anche di molti errori dei movimenti politici più progressisti o contestatari. Però la storia non finisce e continueremo a lavorare per potenziare i movimenti sociali, insieme agli organismi che difendono i diritti umani, alla lotta dei popoli per i loro diritti, in tutti i contesti in cui sia necessario portare questa battaglia. In America latina vi sono stati momenti migliori, ma anche momenti peggiori. E sempre si è mantenuta una lotta per avanzare nei diritti dei popoli. In questo contesto di globalizzazione, l’articolazione tra esperienze nazionali e regionali è ancora più importante, e il Tribunale permanente può giocare un ruolo cruciale nel facilitare questa articolazione, nel generare il trasferimento di conoscenze delle distinte situazioni, nel sviluppare azioni di cooperazione tra le singole lotte e nell’apprendimento reciproco: per fare tesoro delle esperienze dei fratelli che portano avanti lotte in ogni angolo del pianeta.