Ha quasi vent’anni Tovaglia a quadri (l’anno prossimo scatterà il ventennale), eppure ogni volta che si prende parte ad uno dei suoi corposi capitoli, si ha la sensazione precisa di una scoperta, di una novità, di un giacimento che venendo parzialmente alla luce mostri un suo inquietante aspetto. Del resto Andrea Merendelli e Paolo Pennacchini (gli autori, e il primo anche regista) ogni volta ne parlano con souplesse, quasi non fossero consapevoli che l’accoppiata tra cena tipica della Valtiberina (su cui Anghiari si erge, offrendo dal Poggiolino, un terrazzamento delle mura antiche, una vista sconvolgente proprio sulla piana della battaglia, che Leonardo immortalò e nessuno ha mai visto) e il racconto della vita del paese, con storie canzoni e squarci mordaci, è una miscela ad alto potenziale di combustione: insieme comico e politico.
Qualcosa, a saperlo trattare come fanno qui, che potrebbe costituire un genere, cinematografico televisivo o di graphic novel. Perché la cronaca o la stessa memoria «paesana» non scade mai nello strapaese; rivendica il suo essere provincia, ma lo assume come prospettiva privilegiata sulle realtà urbane e nazionali del cui degrado e del cui abbandono finisce spesso con il pagare i prezzi. Qui, quasi come antidoto all’abbrutimento di una nazione, c’è la conoscenza e la memoria personale. I mali che vengono dal centro sono quasi leniti e arginati dall’essere questa una comunità forte, che alla consapevolezza del passato (così come del presente) non rinuncia per cedere alle lusinghe e alle frottole di un roseo domani.
Assistendo negli anni a uno degli episodi di Tovaglia a quadri, si imparano cose che non sono sui libri di scuola: come l’esistenza alla fine della guerra di un campo di concentramento per prigionieri dell’est europeo, a Renicci, proprio sotto il paese; o gli strascichi di misteriosi, se non torbidi, prolungamenti esplosivi nella cittadina, ben oltre l’8 settembre e la liberazione del 25 aprile. Poi, a fianco alla «storia» c’è il paesaggio odierno, degradato dalla distorsione televisiva, ma corretto dall’arguzia indomabile da «maledetti toscani» che viene preservata nei secoli, da quando c’erano i conti vescovi o gli illuminati granduchi di Lorena. La storia dell’intera Anghiari è una sorta di globale antefatto in cui crescono nuove mode e manie come un naturismo alimentare e comportamentale spinto agli eccessi, e le nuove frontiere tecnologiche (con il corollario ambulante e taumaturgico di ogni accessorio telefonico e telematico).
Tutto si spinge sfrontatamente oltre il confine del ridicolo, divenendo corposo bersaglio per crasse quanto amare ironie. La mania salutista questa volta ha contagiato perfino la famosa osteria con insegna storica che costituisce il sancta santorum dell’intera saga di Tovaglia a quadri. A fianco è stata aperta una bottega dal nome programmatico: «simpatiche granaglie, legumi secchi, biade e sementi naturali». Vende varietà vegetali normalmente introvabili e desuete, dai nomi fantasiosi e toponimici che avrebbero fatto felice il Linneo e insieme i padri della commedia all’italiana: dai grispignoli e la rapastrella del tramonto, ai più localizzati cardi giganti di Cingoli, i piselli rampicanti di San Cipriano, e, per i veri intenditori, il fagiolo nano superbo e il ravanello candela di fuoco.
Il conflitto tra quelle «delizie» a km zero e la quotidiana alimentazione industriale è inevitabile, come lo sono i conflitti che la «nuova politica» ha innescato nel tessuto civile: li commenta volentieri, e nel modo più crudele, il dipendente della provincia disciolto e che non riesce a sapere quale sarà il suo destino. Come del resto tutti coloro che vedono espiantato anche il loro attaccamento alla terra: ad esempio la fiera mezzadra che allevava in esclusiva naturalezza i suoi animali da cortile (Razzi, con la z dura, che è anche il titolo dello spettacolo di quest’anno), e li vede morire tutti, con le loro preziose uova da riproduzione doc, dopo il passaggio di un «lupo» molto antropomorfo, oggetto della caccia di tutti. Mentre la contadina desolata chiede all’impagliatore rotto a tutto, di conservare per sempre l’effigie di quella gallina di razza valdarnotta, che lei chiamava affettuosamente Maria Elena (proprio come una appariscente ministra, vien da pensare).
Sono infiniti i riferimenti e le frecciate che lo spettacolo solleva. La buona tavola e il buon vino (che intervallano le scene) attutiscono i sapori micidiali delle battute: in fondo ci si sente come le massaie affacciate lì di fronte a noi dalle finestre del Poggiolino, brontolone e di buon senso, anche se destinate a macinare in eterno i loro rimbrotti al veleno. E non mancano, come preziosi intermezzi, le canzoni antiche della tradizione toscana (amorevolmente curate da Mario Guiducci), che tutti cantano in coro e a cappella. Nella scena mogia offerta dai nostri teatri ufficiali, queste persone che oltre al proprio lavoro sanno recitare, cantare e muoversi, offrono ogni sera, tra una risata e l’altra, una capacità di pensiero che si fa speranza, non solo per Anghiari e la sua valle leonardesca.