Se la Biennale d’arte di Venezia numero 56, guidata dal nigeriano Okwui Enwezor, si lancerà verso mondi futuri, senza chiudere gli occhi di fronte alle macerie ai piedi dell’Angelus Novus di Benjamin, affidandosi al fantasma di Marx e alla presenza in Laguna (oltre, naturalmente, agli artisti), di un economista come Thomas Piketty, il padiglione Italia, invece, ripartirà da sé, dalla sua mappatura genetica, un dna che mescola insieme parole che oggi suonano desuete: stile, avanguardia, memoria.
Non teme di pronunciarle, una dopo l’altra, Vincenzo Trione, presentando alla stampa la sua mostra: Codice Italia – che vedremo all’Arsenale di Venezia a partire dal 9 maggio per il pubblico – fa ricorso ad alcuni grimaldelli critici per ribadire che l’arte non ha nulla di fenomenologico, ma nasce e si raddrizza sui binari di linee guida ben precise. La descrizione del presente non interessa Trione che, oltretutto, non esita a prendere le distanze dalla figura di «independent curator», rischiando l’isolamento e un atteggiamento di controtendenza, quasi da docente che impartisce la sua severa lezione.

Casomai, a dettare le regole, c’è l’ermeneutica tout court. Il compito di chi è al timone del padiglione Italia diventa, allora, rintracciare segmenti specifici, consonanze, indizi.
Fin qui, niente di nuovo. L’arte è da sempre una ragnatela che intrappola i più disparati segnali. Poi, però, Trione tira fuori dal cappello quella parola perduta e irrintracciabile: lo stile, letto come «una postura, un gesto che differenzia un individuo da un altro». Qualcosa di non casuale, ma che va a pescare nelle profondità di un patrimonio genetico. C’è Walter Benjamin ancora una volta alle spalle, soprattutto l’idea e la possibilità di una fusione fra tempi diversi, ciò che è stato e il presente che scorre verso un destino sconosciuto. L’arte intesa come una costellazione temporale è quella che sembra intrigare maggiormente Trione. Per questo, il suo richiamo più forte è alla memoria, non quella del mero ricordo, ma una memoria attiva, che sappia risvegliare circuiti dimenticati, oscurati, contatti evaporati, dialoghi interrotti.

Se il presidente Baratta ha parlato di una Biennale che districherà la rete di tensioni che ci avvolge da ogni parte del mondo, il padiglione Italia si misurerà a modo suo con quell’«età dell’ansia», a partire dai quindici artisti scelti per rappresentare il paese. Saranno loro a disegnare le traiettorie da seguire per una interpretazione del mondo. Il punto di vista, invece, sarà unico e rispecchierà quello del curatore. Un cocktail di generazioni – da Kounellis a Paladino e Aquilanti, da Longobardi e Biasucci a Beecroft, Caccavale, Migliora, fino a giovanissimi come Francesco Barocco o il duo Alis/Filliol – sarà chiamato all’Arsenale con installazioni ad hoc, per oliare il dispositivo ambiguo della memoria. Obiettivo, la costruzione di un «Atlante», con riferimenti a Warburg e a quella speciale ricognizione dei confini – e degli sconfinamenti – attraverso le immagini. Per sbrigare al meglio questo compito critico, Trione ha invitato artisti schivi e dall’anima sperimentatrice come Paolo Gioli, provocatori (Nicola Samorì che infligge un martirio fisico ai capolavori con esiti kitsch), talenti delle nuovissime generazioni (Luca Monterastelli), filmmaker underground come Aldo Tambellini.

L’allestimento del padiglione – un milione di euro, fra soldi del Mibact, sponsor e fondi extra arrivati grazie alla circolarità con Expo – è stato affidato all’architetto, Giovanni Francesco Frascino, che ha creato uno spazio di celle autonome, quasi degli «orti conclusi» dalle pareti porose, immaginati in sequenza dentro una cattedrale. Codice Italia avrà poi dei tentacoli nelle Accademie, bandirà concorsi, si circonderà di un pullulare di iniziative che dilagheranno fino a Marghera. Ha pure una sua «sigla» video, girata da Mimmo Calopresti, con musiche dei Subsonica.

Intanto, il ministro Dario Franceschini, auspicando la sinergia fra Expo e Biennale, dovrà posare il suo sguardo anche altrove: per esempio sugli Uffizi, dove la minaccia della chiusura pasquale (nonostante sia stata dichiarata illegittima dall’Autorità di garanzia per gli scioperi) non gli deve far dormire sonni molto tranquilli.