È nelle librerie la nuova raccolta di Filippo Davoli, La luce, a volte edito da Liberilibri (pp.88, euro 15) e dice bene Massimo Raffaeli nella sua puntuale prefazione (libro concentrico più che una sommatoria di testi): difatti l’autore marchigiano, voce oramai riconoscibilissima nel panorama poetico italiano, torna a cucire in maniera circolare, le direttrici di ricerca esistenziale che gli pertengono sin dal suo esordio con Alla luce della luce del 1996.

LA MEMORIA DIALOGA con una natura sempre pronta a interrogarci con le sue volute, i suoi archi trionfali, o anche con i suoi microbattiti quotidiani e l’infanzia come età della gioia, un porto franco da dove tutto appare così nitido, chiaro, ma al tempo così impermeabile allo spazio adulto che sembra rimiri dalla sua lontananza quell’età ma senza rimpianto, anzi con quel respiro smagato, di chi ha provato e non può che lasciare ad altri, il fiore del principio: «Come sono belli i nuovi ragazzi che scrivono. / Si cercano, si ritrovano, passano ore a parlare / e si raccontano quel che provano… /Io li guardo da un universo di memorie e di giorni/e non vorrei ricominciare, ma solo starmene/tra i loro incantamenti a guardare il mare». E sembra nel libro, che Davoli continui a far proprio e svolgere quel mirabile verso di Luzi che diceva, Natura, Lei sempre detta dalle origini; è come se da esso si ramificassero gli anzidetti movimenti di ricerca dell’autore, dove il tempo della perdita dei cari è un attimo, un sussulto, dentro la macina terribile della natura, così vicina nei tratti di taluni versi all’Islandese leopoardiano.

I fogli di Davoli pieni di arsa malinconia, di crepitante preghiera, di sconforto talora irreversibile per ciò che è stato e mai tornerà, hanno quel nitore, quell’abbaglio di un cielo al culmine della sua luce, che rende il lettore per un attimo camminatore cieco, disorientato; a tentoni si va tra versi divenuti fiume di uno spazio metafisico, la direzione sconosciuta: «Averti qui per guardarti, questo vorrei./…// Vanno lontani i trattori dei contadini,/…// La mia gente / è anche la tua, tu potessi vederla / dedita e curva, in quelle confidenze / che sono tradizione e libertà. // Manchi, quando la vita palesa. / E in me non si rassegna il pensiero di te».

DA UNA PARTE, la luce che tutto divora, anche la perdurante tenebra della vita e dall’altra la parola che ricerca il culmine della sua significazione, attraverso l’indagine del reale ed anche quando le pagine sono così scorticate e dolenti, ecco l’autore risalire da esse, sempre ad un messaggio da decifrare che non vuol dire salvezza ma solo ricerca sgomenta. E in Davoli l’anelito strettamente spirituale, somiglia ad una bramosia, un ardimento, che si traduce poi in figure poetiche traversate da un senso di appagamento mai pienamente raggiunto, perché imbevute della precarietà dell’esistere.
Filippo Davoli è un tessitore di visioni celesti e al tempo terrestri: ««La preghiera si riassorbì nel silenzio. / Tacque l’infinità di parole mentre alto / si faceva l’amore, affilatissima / la sua debole spina. / Fu l’inizio del canto». E se volessimo avvicinarle a qualcosa nell’arte che vi somiglia, dovremmo ripensare a quei corpi così carnali e appesi alla terra di taluni pittori rinascimentali che però guardano e riguardano il cielo sempre.