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Ettore Majorana – la sua persona la sua vicenda il suo mistero – merita rispetto. Un rispetto che è presente sin dal titolo della pièce di Paolo Manganaro –Majorana. Mistero in due scene, Chartago, pp. 87, euro 14 – e che nel testo si snoda e si mostra per intero. Ispirato ai Dialoghi filosofici di Giordano Bruno, alle Operette morali, al teatro dell’assurdo, il Majorana di Manganaro mette in scena nella prima parte un serrato e drammatico dialogo tra Fermi, Heisenberg, Majorana e Sciascia; nel secondo dà voce ad alcune figure che rappresentano parti di un enigma che non riguarda un singolo ma l’intera umanità.
La vicenda di Ettore è, certo, paradigmatica della volontà di potenza propria delle scienze europee, della pretesa dei fisici di sentirsi in ogni caso al riparo dalle conseguenze delle loro azioni. Il siciliano Majorana non la pensava così. «Come ogni siciliano migliore non portato a far gruppo, a stabilire solidarietà», polemizza in modo feroce contro la superficialità con la quale Enrico Fermi preparava l’apocalisse: «Ma alla fine quello che noi scartavamo nel cestino come un’orribile conseguenza, tu l’hai raccolto. Di un ordine della natura hai fatto un disordine abbagliante, creando la terribile luce, bruciante». Sciascia riprende e conferma le parole di Ettore: «Le mani di Truman erano meno sbagliate, meno criminali di quelle di Hitler? Proprio il tenere questa bomba non è di una mano criminale?».

La materia, l’antimateria, i neutrini, sono per Majorana un tentativo di capire il mondo, di penetrare il suo enigma affascinante e potente; non sono certo uno strumento per rendere cosmica la morte ed estendere il male: «Sono il neutrino di Majorana. (…)Nel mio mondo, nel mondo del neutrino di Ettore, ringiovanite mentre invecchiate. (…) L’universo si espande e si contrae insieme». Avendo compreso verso quali esiti invece la sua scienza stava andando, Ettore sparisce in una notte di marzo del 1938. Ed ecco che prendono voce alcune Figure, le quali rappresentano le diverse ipotesi che su questa scomparsa sono state formulate. Figura di sabbia: il suicidio in mare; figura di stoffa: il trasferimento in Germania al servizio del Terzo Reich; figura di legno: la fuga in Argentina; figura d’acciaio: l’assassinio sulla nave, perpetrato da due spie inglesi; figure di vetro: la reclusione in un convento. E tuttavia, afferma la Figura di cartapesta, «se mettiamo assieme questi fantocci e li incrociamo, ci accorgiamo che ogni pista depista l’altra».

Il mistero rimane. Di esso si può solo dire che nasce da un uomo il quale, più che un misantropo, fu ciò che Morselli – in Dissipatio H.G. – definisce un fobantropo: «Quello che io sono è solo un inizio, e non c’è nome che possa contenerlo, afferrarlo. Questa strana umanità vive peggio dei ciechi e dei sordi, non sa di essere segnata, condannata alla grande morte! Se gli umani sono tutti come voi per me è stato meglio sparire».

Mettere in scena un testo tanto denso nelle parole e così geometrico nella costruzione sarebbe un segno di vitalità per il teatro contemporaneo.