Come è il mondo visto dall’altra parte del globo, dal sud-est asiatico, nientedimeno che da Yangoon, capitale di Myanmar, fino a poco tempo fa rispettivamente Rangoon e Birmania, dittatura militare che aveva imprigionato per anni la dolce signora Aung San Suu Kyi, ora libera ma non ancora autorizzata a candidarsi alla presidenza perché – questa l’ultima scusa – è stata sposata con uno straniero, così hanno stabilito gli ufficiali al potere, ora un po’ più, ma solo poco più, democratici di quelli di prima?

Aung San Suu Kyi  REUTERTS
In questo mondo dall’altra parte del nostro sono stata immerse a ferragosto per tre giorni di fitta discussione, assieme ad una sessantina di rappresentanti di associazioni di varia natura, provenienti da paesi di cui non si parla mai (a meno ci sia uno tsumani) almeno da quando – più di quarantanni fa – è terminate la guerra di liberazione d’Indocina: la Cambogia,il Laos,il Vietnam, e poi anche il Nepal, la Thailandia,l’Indonesia, il Bangladesh ed altri ancora, compresa l’India, la più grossa e la più mistificata dalle notizie ufficiali. E persino la Cina, sia pure attraverso la voce delle Ong di Hong Kong. Insomma: la c.d. società civile asiatica. Sono stata invitata lì dall’Aepf (Asian European People Forum), con cui da anni sono in contatto, un organismo che periodicamente riunisce l’associazionismo dei due continenti, alla vigilia del summit dei governi dei due rispettivi continenti.

Rosa Luxemburg e «società civile»

Questo era un seminario sulla previdenza sociale in preparazione della conferenza vera e propria che si terrà a Milano a metà ottobre. Da me e da Birgit Daiber, Fondazione Rosa Luxemburg, volevano sapere di più sulle vicende del welfare europeo. Ad uno degli incontri precedenti, a Pechino, avevo scoperto questa nuova fauna: le Ong asiatiche, per l’appunto. Molte mi erano parse mascherature di vecchie formazioni comuniste, ora ho invece constatato che no, sono, o forse sono nel frattempo diventate,davvero «società civile», con tutti i pregi e tutti i difetti della specie. Di partiti comunisti, ma, direi, di partiti in generale, sembra infatti anche da queste parti che non ci sia più traccia: nemmeno vengono nominati, a meno non si scavi in qualche antico ricordo personale. Poiché quello italiano l’ho nominato io, una bella signora di nome Lolita Dela Cruz si è affrettata a dirmi che suo nonno aveva fondato quello filippino e aveva anche incontrato da studente in Germania Rosa Luxemburg. La nascita del Pcf era avvenuta nel 1930 e da allora ne sono successe di tutte: la guerra, ovviamente, e poi prigioni, clandestinità, guerriglie, divisioni, l’ultima e più grossa indotta dal ’68 locale (il ’68 c’è stato proprio dappertutto, una vera «internazionale»). Ora in Parlamento quello che mi pare più ci somigli è un partito creato dai movimenti il cui leader, sono stata felice di sapere, è Walden Bello, compagno economista che dirigeva il South Center a Bangkok e che tutti quelli che hanno frequentato i Forum Sociali Mondiali conoscono bene e apprezzano molto.

Dai vietkong alla questione migranti

C’è anche un ex deputato Nepalese, Hari Roka, uscito assai frustrato dalla sua abbastanza recente esperienza nel parlamento di Katmandou dove è stato mentre al governo era andato il PC maoista (lui era del Pcm, il marxista ), diventato regolare maggioranza in seguito alle elezioni indette quando uno storico compromesso aveva posto fine, qualche anno fa, all’insurrezione armata che durava da decenni. Frustrato perché non si è riusciti – ci dice – a fare nessuna delle cose che avevano in programma. (Vale ancor sempre la famosa frase di Ramsey McDonald, il primo laburista inglese andato al governo in Inghilterra negli anni ’30: «Credevo che la cosa peggiore fosse stare all’opposizione senza poter far niente, ora so che è assai peggio stare al governo e non avere alcun potere»).

Mi sono seduta vicino alla vietnamita, perché anche solo il nome del paese scritto sul cartellino davanti a lei mi emoziona. Oltretutto mi pare di non aver incontrato un vietnamita dai tempi in cui erano vietkong – circa 40 anni fa – e l’unica immagine del paese che tutt’ora alberga nella mia testa è quella della guerra. Non è però l’immagine che c’è in quella di Dan Kim Chung, minigonna, trucco, tacchi altissimi e un tatuaggio sulla gamba destra. Ovviamente nata quando il conflitto era finito da un pezzo. Alle mie petulanti domande risponde in modo da farmi capire che fra i giovani non solo non c’è molta memoria, ma neppure grande interesse per il passato. Se non sapessi che viene da Hanoi non la distinguerei dai rappresentanti di un altro paese asiatico. E del resto è naturale, visto che ormai hanno in comune gran parte dei problemi, innanzitutto quello che anche a lei più preme e di cui si occupa con la sua associazione, «Progetto di rafforzamento del Sistema di Assistenza Sociale»: i migranti. Milioni di migranti che si spostano di continuo non solo da una nazione all’altra ma anche all’interno di ciascuna, una epopee senza precedenti,tutti senza protezione sociale e sradicati, che provengano da un paese che si chiama ancora socialista o meno non cambia. «Nelle campagne – dice – non sanno nemmeno che potrebbero pagare contributi piuttosto equi ed avere diritti sociali, poi emigrano e diventano irregolari. E così sono fuori da tutto».

C’erano una volta i khmer rossi

Dalla Cambogia sono venuti in quattro in rappresentanza della «People’s Action for Change», leader la più decisa e combattiva khmera, di nome Sophea. Muoio dalla voglia di chiederle dei Khmer rossi: poco prima di partire ho rivisto alla tv il volto ormai vecchissimo di Jan Sampan, in attesa di essere condannato all’ergastolo per aver perseguito l’ utopica follia di eliminare chiunque non fosse un contadino povero e così sopprimere il virus che impediva di creare l’uomo nuovo, e ho ripensato a quando, nel ’73, lo intervistai per il manifesto. Era alla conferenza dei non allineati ad Algeri, nel 1973, dove si trovava assieme al simpatico re Sihanuk e tutti ancora speravamo. Poi però non chiedo niente a Sophea, non me la sento, mi sembra una illecita incursione in una storia terribile. Resto con la curiosità di sapere se suo nonno era uno khmer rosso o se è suo uno dei teschi delle loro vittime conservati a Phnom Penh. L’impressione, comunque, è che i nonni siano diventati muti, o forse i nipoti si sono turati le orecchie. Del passato, dai quattro cambogiani, so solo qualcosa di più attraverso un riferimento indiretto: sono i soli che parlano di riforma agraria e dicono che ai contadini, da loro, più dell’assistenza sociale interessa reclamare la terra che è stata loro tolta. E aggiungono che la gente se la prende con il governo e non capisce che invece è colpa del sistema.

Anche qui il protagonismo femminile

La stragrande maggioranza dei presenti sono donne. Donne fortissime e sicure da ogni paese: dall’India, dal Bangladesh, persino dal Pakistan. È come in Africa e in America latina: sono loro le protagoniste del nuovo movimento di lotta, perché sono loro quelle che più degli uomini vivono la realtà più generalizzata e significativa dei questi continenti, quella dell’economia informale. I sindacati a questa riunione che pure ha all’ordine del giorno la protezione sociale non ci sono. Ma non sembra essere perché hanno altre appartenenze e appuntamenti più specifici, bensì perché in queste parti del mondo sono marginalizzati: lavoratori in senso proprio quasi non ce ne sono. Dalla discussione emergono i dati che confermano questo stato di cose: «2/3 dell’economia in Asia è così, l’80 per cento in India» – riferisce il professor Ofreno, che insegna all’università nelle Filippine. «È un oceano di lavoro precario, anche dove ci sono grosse imprese, perché tutte ricorrono all’outsourcing, agli appalti di terza mano, alla flessibilità. Il famoso miracolo economico asiatico è minacciato da un’ineguaglianza profonda, quasi tutto frutto di investimenti stranieri mordi e fuggi, qui non resta quasi niente,della protezione sociale anche quando ufficialmente c’è se ne infischiano». Dall’Indonesia è invece venuto un ragazzo focoso, a differenza di tutti gli altri parla un inglese stentato, si vede che è alle sue prime armi.

A Giakarta una «confederazione»

Si chiama Maruf Anwar, ma viene chiamato Sestro. La sua organizzazione è la «Confederazione dei movimenti popolari indonesiani», un nome ambizioso ma a lui preme proprio questa parola confederazione perché, dice, i sindacati sono tutti solo di categoria, spezzettati, e non si riesce ad animare un movimento generale. Ci dice anche che la protezione sociale nel suo paese è inscritta nella Costituzione, ma non è mai diventata legge. «Del resto ci sono quattro milioni di emigrati, quasi tutti negli Emirati arabi, come garantirgliela anche ci fossero norme? E poi – aggiunge – che vuol dire da noi il diritto alla salute? Siamo un arcipelago e gli ospedali nella maggioranza delle nostre isole non ci sono. Assistenza sanitaria da noi vuol dire trasporti». Per certi versi più consolanti le notizie dalla Cina: lì le fabbriche ci sono, grandi e grosse, e così ci sono stati anche i primi scioperi.

La «svolta» cinese sul welfare

Il problema della previdenza sociale è comunque enorme anche lì, perché gigantesche sono le migrazioni interne e dunque il lavoro non regolarizzato. L’assistenza sociale, anche qui come in molti paesi socialisti, era erogata dal luogo di lavoro, azienda industriale o agricola. Quando è scoppiato il mercato e il privato il sistema è saltato per aria.

Qualche anno fa il Cc del Pcc, che con buona pace del business prende ancora tutte le decisioni, ha dichiarato che occorreva assolutamente creare un welfare generale; e che però ci sarebbe volute tempo perché era molto costoso. Ora, pare, siano arrivati al 27% di copertura, un ritmo da tartaruga, ma meglio di niente. Ma va a sapere se questa proporzione è reale, le cifre in Cina non sono la cosa più affidabile. Ho appena letto sull’edizione asiatica di China Daily, il giornale in inglese pubblicato dal governo a Pechino e diffuso in tutto il sud continente, che un giovane ricercatore di Shanghai avrebbe scoperto che i disoccupati nel paese sono molti di più di quelli annunciati, perché le zone rurali non sono prese in considerazione, i migranti non sono calcolati e neppure gli studenti appena laureati. (Prudentemente il giornale annota in calce all’articolo che il parere del ricercatore non è necessariamente quello della redazione. Che invece evidentemente condivide con entusiasmo le molte pagine dedicate al tema dell’impresa familiare, vera chiave del successo cinese. Quando si litiga fra eredi – come dimostrano alcune grandi aziende – tutto va gambe all’aria. Viva la famiglia, dunque, e i panda. Anche loro ricevono parecchio spazio nella pubblicazione sotto il titolo Panda Diplomacy: tre cuccioli sono stati regalati alla Malesia che li ha accolti con grandi feste governative). Wong Yuet May, del Globalisation Monitor di Hong Kong, insiste tuttavia soprattutto sulla corruzione, la principale ossessione cinese: a Shanghai pare si siano rubati tutti i fondi pensione.

Il 1988 e l’isolamento birmano

Ancora molto sperdute sono le ragazze di Myanmar, venute in tante (maschi nessuno): il paese è stato isolato dal mondo per 25 anni, anzi più, già dalla semidittatura anch’essa militare del Partito socialista birmano, che mischiando Buddha con qualche insegnamento di tipo sovietico aveva già determinato un disastro, ben visibile visto che nella regione è il solo paese dove la modernità non è arrivata (il solo che abbia visto dove non è arrivato Maxmara, giunto persino nell’estremo limbo della Siberia), che potrebbe anche essere un bene se avesse conservato le virtù premoderne: invece non ci sono né quelle post né quelle pre e così le stupende pagode cadono a pezzi. Le ragazze si lamentano, dicono che il livello culturale dei contadini, fra i quali domina l’analfabetismo, è così basso che loro, prevalentemente ceto medio, non arrivano nemmeno a parlargli per dirgli che avrebbero diritto alla previdenza sociale. Ma fra le svariate organizzazioni che rappresentano, ce ne è una che mi dice qualcosa: nel suo nome c’è il numero 88: «88 Generation Resources».

Quella cifra evoca il 1988, una data importantissima nel Myanmar: fu allora che prese corpo una estesissima rivolta studentesca contro i militari «socialisti» che reggevano il paese da 25 anni. Purtroppo caddero dalla padella nella brace: dopo mesi di tensione e di dimostrazioni, intervenne l’ala peggiore dell’esercito, quella che ha instaurato la dittatura completa. Molti ragazzi dell’88 finirono in prigione per lunghissimi anni, parecchi hanno cominciato ad uscire solo adesso dalla galera. Ma in questi due anni una nuova leva, che si è collegata con i più anziani, sta emergendo:non sono un partito e nemmeno sembra lo vogliano formare, nè entrare in quello quello creato da Aung San Suu Kiy. Per ora si limitano ad aiutare chi deve reclamare diritti. Mar Mar Oo, che si occupa di previdenza, sociale deve essere una di loro.

Ben più sperimentate le bengladeshesi e le indiane, nonostante le disperate condizioni dei loro paesi. Nel Bengladesh il 38 per cento dei bambini non va nemmeno a scuola. Ma le donne ormai scioperano e hanno strappato qualche accordo, per esempio nel settore della fabbricazione di tappeti. Priti Darooka, una Indiana tostissima, fondatrice e direttrice esecutiva del «programma per i diritti sociali, economici e culturali delle donne», ha sollevato il problema del lavoro di cura e di quello collegato con la riproduzione sociale che le donne compiono e che non è nè pagato nè riconosciuto, una gigantesca fascia di fatica resa invisibile, nell’oceano dell’economia informale, che riguarda il 96% delle donne indiane. Priti sta chiedendo quello che noi dell’Udi degli anni ’50 chiamavamo la pensione per le casalinghe, oltreché la titolarietà dei diritti di assistenza per le donne, ora, al meglio, considerate solo in quanto appartenenti al nucleo familiare di cui capo è il marito.

Per tre giorni il seminario ha lavorato alla stesura di una comune piattaforma di lotta, un documento che riflette gli otto punti della Convenzione dell’Ilo (Organizzazione Internazionale del Lavoro), lontana anni luce dalla realtà asiatica. Ma tutti i partecipanti hanno insistito nel dire che era importante, serve a dare coscienza dei diritti cui si ha diritto. È giusto.

Troppa «lobbing», poco «movimento»

Quel che colpisce, tuttavia, in questo continente che è stato l’epicentro delle grandi rivoluzioni e controrivoluzioni del ‘900, è come rapidamente sia tramontata la cultura politica della sinistra che abbiamo conosciuto e quanto forte sia diventata l’influenza di quella americana. Per dire che devono rivendicare usano, per esempio, la parola lobbing e io mi arrabbio dicendogli che non è una bella parola, i «lobbisti» sono quelli che premono con mezzi leciti e non sui legislatori per ottenere leggi favorevoli alla ditta che rappresentano. Loro non sono lì per conto di una ditta, ma dei lavoratori, dei poveri. Ne segue una curiosa discussione. Quale parola usare, allora? Suggerisco «movimento popolare», «pressione popolare». Si discute un po’,sembrano convinti, ma poi la parola lobbing torna a risuonare, riflesso quasi condizionato di quello che ormai domina da queste parti.

Che sono molto diverse da come noi spesso le immaginiamo: non è vero che possiamo aspettarci la crescita della classe operaia così come l’abbiamo conosciuta in Europa nonostante tanta parte della produzione si sia ormai spostata in Asia. Non ci saranno prime prese di coscienza e azioni collettive che si organizzano nelle fabbriche e poi via via la crescita dei sindacati eccetera eccetera. Qui non si sta sviluppando con ritardo il nostro capitalismo, ne sta nascendo un altro, nuovo e diverso. E noi abbiamo poco da suggerire, toccherà a loro inventarsi forme e contenuti dell’alternativa necessaria. Il potenziale di lotta c’è, un nuovo mondo è dunque possibile, ma chissà come sarà.