Forse nessuna storia come quella del pensiero torna continuamente sui suoi passi, verso il logos e talvolta anche verso il mito. Per la filosofia è come se il conto con l’origine non fosse mai del tutto saldato. L’inizio si ripresenta come la coazione a ripetere di un atto tragico senza completa catarsi. Anche per questo forse Platone, Aristotele, San Tommaso, Descartes, Spinoza, Wittgenstein e altri sono in un certo senso sempre contemporanei. Alcuni pensatori con le loro questioni riappaiono continuamente in scena anche a distanza di millenni.
Una figura che sin dall’antichità è apparsa ossessivamente, tanto da essere definita già da Platone come «terribile», è quella di Parmenide. A favore, contro o con soluzioni di compromesso, «lo straniero di Elèa» con le poche righe che ci sono giunte del suo poema ha proiettato la sua ombra nei secoli. L’aver concentrato l’attenzione della filosofia sul tema dell’essere gli ha dato la capacità di mettere ripetutamene in discussione la status della realtà, del linguaggio e del pensiero.

Ma se è vero che è possibile vedere una gran parte della filosofia come una serie di risposte ai problemi che Parmenide solleva, è anche vero che si può ravvisare, nell’ontologia che da lui si sviluppa, un intervento che vuole venire a capo di posizioni che nella cultura greca antica criticano la tendenza a neutralizzare e ridurre all’unità il dualismo impersonato da molte figure mitologiche. La filosofia intesa come logos che conduce all’unità, o quantomeno alla conciliazione di essere e pensiero, è quella filosofia che vuole avere ragione dell’irriducibile duplicità di figure come Edipo, Dioniso, Narciso, Antigone, Prometeo. Parimenti e reciprocamente, il pensiero che la tragedia antica sviluppa proprio a partire da queste figure è quel pensiero che vuole invece avere ragione di posizioni filosofiche come quella di Parmenide.
In un libro pubblicato per la prima volta dieci anni fa e che ora viene nuovamente stampato, Endiadi. Figure della duplicità (Raffaello Cortina, euro 20), Umberto Curi traccia la storia del pensiero alternativa a quella della riduzione all’unità dell’essere ricorrendo in prima istanza alle figure mitologiche prima menzionate e all’elaborazione drammatica che esse subiscono, soprattutto nella tragedia attica. Il cambiamento che la tragedia attica rappresenta nel pensiero antico non è soltanto teoretico, ma anche politico. Per Curi, infatti, nella cultura greca di questo periodo si assiste anche al «definitivo congedo da ogni visione univoca della legge» il cui dibattito in seguito, secondo l’autore, «si svilupperà muovendo dalla consapevolezza dell’irreparabilità di un duplice parricidio; ma anche dalla scoperta della nuova libertà concessa all’uomo».

Il libro di Curi è cruciale per avere un’idea più completa di cosa siano un pensiero e una filosofia non staccati dal mito antico e in tempi moderni dalla storia. Secondo l’autore, Edipo, Dioniso, Narciso, Antigone, Prometeo sono tutti tipi della duplicità i quali formulano l’origine come endiadi, cioè come «uno-mediante-due, «due-in-uno».

Protagonista in questi miti non è più l’essere atemporale isolabile nella sua essenza, ma l’essere temporale inseparabile dall’altro. Come l’atto drammatico che articola la metamorfosi di queste «figure della duplicità», Curi vede in loro delle distinzioni inseparabili che pongono la questione dell’essere simultaneamente sia in termini fattuali sia in termini di possibilità, sia come sostanza sia come contingenza. Tutto ciò proprio attraverso quel «due» che il logos parmenideo aveva cercato invece di cancellare, rendere soltanto «uno» impermeabile al tempo, alla metamorfosi, alla narrazione, alla storia. In tal senso è illuminante l’estensione moderna che Curi fa della duplicità dei miti della tragedia attica e soprattutto del ruolo che il personaggio di Prometeo ha in Marx critico dell’economia politica.

Curi mostra come la critica dell’ideologia sia in Marx fortemente debitrice di una posizione ontologica all’insegna dell’endiadi e che questa si sviluppa dalla lettura che in tal senso Platone aveva dato del mito di Prometeo nel Protagora. Secondo lo studioso, in Marx lo scatto rivoluzionario nella storia, la metamorfosi politica provengono da una concezione duplice dell’essere, inseparabile dal tempo, ma proprio per questo non appianabile nel progressismo che semplifica e rende unilaterale la più complessa tragicità di Prometeo. Per Curi, Marx non è dunque il cantore di Prometeo quale figura del progresso e della tecnica. È anzi colui che, proprio a partire da Prometeo e a causa dell’irriducibile endiadi della figura di quest’ultimo, per primo articola una critica della ragione tecnologica rivendicando il ruolo della decisione politica in luogo della sapienza tecnica.