L’arte nasce come pubblica e ribadisce la sua identità con le avanguardie, a partire dal Futurismo che mette lo spettatore all’interno del quadro: da quel momento, niente sarà più come prima. La ricerca artistica, l’osservatore e la città saranno legati a doppio filo in una relazione che si snoda per tutto il Novecento per arrivare oggi a declinarsi nella cosiddetta Arte Pubblica, o meglio Arte della sfera pubblica, un fenomeno dall’identità multipla e complessa. La trasformazione dello spazio pubblico e la sua rigenerazione nella nuova realtà metropolitana è una delle questioni sostanziali della cultura contemporanea che vede la città come un organismo, un insieme fluido di relazioni, metafora della complessa molteplicità del mondo: una trasformazione che assume contorni liquidi con la dissoluzione del suo tessuto connettivo nella perdita della dicotomia tra centro e periferia e delle gerarchie tradizionali dei suoi elementi strutturali. Si viene così a disegnare una morfologia in costante mutazione, una geografia socio-antropologica fatta di dinamiche, gruppi, comunità, associazioni, insiemi, vitale ed effervescente. Un orizzonte che comprende i processi integrati e partecipati, l’immaginario urbano e le nuove utopie praticabili, l’abitare reale e metaforico, la coesistenza e l’emergenza, la salvaguardia dell’ambiente e la progettualità tra arte, architettura e urbanistica per la ricostruzione di una sfera pubblica come territorio della nuova comunicazione estetica nello sviluppo etico della società.
Peraltro, una città più bella è anche più autentica perché la bellezza, come scriveva Peppino Impastato, «è un’arma contro la rassegnazione, la paura e l’omertà».
Fra deficit e progetti
Le città – oltre l’apparenza di organismi cinici minati dal virus della speculazione edilizia – si sviluppano costantemente anche secondo bisogni profondi di relazione. L’arte può assecondare, veicolare e sviluppare queste necessità e lo può fare a partire da un’utilità effettiva: quella espressa dai cittadini coinvolti nei processi di rigenerazione umana e urbana, a partire da una dimensione individuale psicologica ed emotiva del rapporto con lo spazio pubblico.

Questo significa considerare lo stato della città – anche nelle sue criticità – secondo un atteggiamento che insinui domande più che fornire risposte rassicuranti tali da compensare deficit politici: gli interventi di progetto-azione sul campo, coinvolgendo i cittadini e intervenendo nei processi vitali del quotidiano, attivano un confronto diretto con la realtà, interfacciando i comportamenti ripetitivi e distratti della gente, magari provocando disorientamento e riportando quindi all’attenzione, attivando dimensioni subliminali, sviluppando strumenti anomali di lettura volti a stimolare la conoscenza e l’esperienza autentica dello spazio. Orientando, anzi ricreando l’ascolto per una diversa percezione del luogo, si innesca una sensibilità poetica che modifica potenzialmente gli assetti consolidati nell’ambito della comunità a cui si rivolge, con un linguaggio più di vuoti che di pieni, per un processo aperto, un’attività creativa intesa come un work in progress, non come produzione.
Quell’arte che, elaborando strategie di intervento nel reale esce dalla propria autoreferenzialità per entrare nella sfera pubblica aggirando il sistema, è uno degli strumenti ideali per comprendere i mutamenti epocali: elabora immaginari che possono essere considerati a tutti gli effetti dei mezzi di esperienza del reale e quindi di conoscenza.
Dal site specific all’issue specific, al community specific, all’audience specific, al fight specific: l’arte nello spazio collettivo diventa dalla metà degli anni ’90 – in ambito internazionale – Arte (della sfera) Pubblica. E lo spazio non è più un contenitore quanto il luogo della vita. Da un certo momento in poi, sarà un fenomeno in crescita esponenziale in cui convergono la rivisitazione poetica, la rilettura concettuale, l’esplorazione trasversale dei luoghi del quotidiano, il confronto e la sintonia con le energie e le esigenze di chi li abita, l’analisi dei suoi processi intrinseci e la sperimentazione di modalità operative e progettuali flessibili e sensibili in sintonia con i mutamenti culturali e sociali del luogo (comune), situato in una zona di co-progettazione con l’urbanistica e l’architettura: un sismografo rivelatore di questioni culturali e dinamiche relazionali, sociali, politiche e nondimeno afferenti all’ambito individuale, psicologico e affettivo. Ricreare il nuovo tessuto dell’arte e della città è una sfida che rimette in ballo la benedetta funzione dell’arte e il ruolo dell’artista, nonché la sua autonomia, nello spazio di manovra e negoziazione con committenze e le istituzioni.
Nessun décor
Pertanto il concetto di Arte (della sfera) Pubblica che vogliamo interrogare, e da cui vogliamo farci interrogare non è quello della scultura all’aperto che punteggia in modo più o meno decorativo, ornamentale e assertivo vari punti della città, analogamente ai macrosegni architettonici arroganti e solipsistici o alle soluzioni urbanistiche astratte dei piani regolatori. Piuttosto, è un qualcosa che a volte non sembra nemmeno arte, ne aggira il senso tradizionale, non si fa incasellare. È sperimentazione e ricerca estetica, è un approccio creativo relazionale basato sull’esperienza e sull’analisi dei territori urbani e sulla trasformazione dello spazio pubblico scelto come luogo d’intervento, che in quanto tale predilige un sentire comune; uno strumento atto a rivelare un tessuto reale di narrazioni nascoste sotto la coltre seduttiva e patinata della comunicazione mediatica, un’opera processuale e inafferrabile, una prassi urbana operante anche quando prende forma costruttivamente compiuta.
Agli esordi
Le premesse sono rintracciabili negli anni ’60 e ’70, – ma ancora prima a partire dal Situazionismo e da Fluxus -, quando al grido del «diritto alla città» di Lefebvre, l’operatore estetico dava vita al cosiddetto spazio sociale all’insegna dell’ideologia e dell’utopia, coinvolgendo il pubblico nel processo creativo ed operativo dell’opera nel contesto, concepita di fatto come un abitare il luogo e un fare spazio, ricreandolo, come indicava Heidegger. Per Vito Acconci che, tra gli altri, con Joseph Beuys, Michelangelo Pistoletto e Nicola Carrino è uno dei padri conclamati dell’Arte Pubblica è una produzione che rifiutando a priori la tradizione autoaffermativa del monumento e l’assetto decorativo dell’arredo urbano – nonché prendendo le distanze da quel 2% che vede ancora l’arte come espressione della retorica istituzionalizzata -, privilegia una dimensione progettuale di ampio respiro. Qui, la volontà del committente si coniuga con il processo creativo, creando strutture che interagiscono con il preesistente e si offrono alla fruizione in una nuova modalità di rapporto tra estetica e funzionalità pubblica.
Naturalmente, non è una terapia alternativa per i problemi contingenti della città. Non si tratta dunque di uno strumento pratico: quest’ultimo dovrebbe essere attivato dalle Pubbliche Amministrazioni, Roma fra tutte, oggi in seria difficoltà a gestire il cambiamento con gli strumenti tradizionali della pianificazione, delle politiche culturali e delle scienze sociali. Ma sulla gestione del territorio e relative strategie per una crescita a minimo consumo di suolo mirata ad una rigenerazione urbana che parta dalle periferie come luoghi emblematici della contemporaneità, in un approccio olistico, in linea con le esperienze europee, scontiamo una lunga assenza istituzionale. Al cospetto di questa assenza, nella metabolizzazione della dissoluzione ideologica e nel cortocircuito glocale (A.Bonomi), per un multiculturalismo gestito più sulla base di una solidarietà organica (M. Maffesoli), oltre il folkloristico melting pot, nella presa di coscienza della conflittualità permanente (M. Ilardi), il contributo di un’arte che ha rinunciato a cambiare il mondo sarà marginale, ma necessario e vitale per modificare assetti e relazioni nell’ambito delle comunità a cui si rivolge, attivando uno scambio simbolico.
L’Arte (della sfera) pubblica cerca pertanto le sue ragioni fuori di sé, nella dinamica con il pubblico e si pone quindi a marcata vocazione relazionale, testando il concetto di interazione sul campo: l’autore con il suo atto progettuale e sociale fa un passo indietro, scende dal piedistallo dell’automitografia diventando interprete e mediatore dei desideri e delle aspettative di un luogo abitato dove la cura del territorio sia affidata ai residenti. I cittadini, da un certo momento in poi, si sono presi la responsabilità di rifiutare quei progetti ritenuti superflui o invadenti, a cominciare dal caso Tilted Arc di Richard Serra che svettava nell’81 a Manhattan, poi è stato rimosso nell’89 dopo varie traversie, per le proteste di abitanti e lavoratori. La funzione di una nuova committenza (in base alle esigenze di vita e di definizione della specificità delle comunità locali rispetto a quella globale che avviene nel passaggio all’economia postfordista) è pertanto uno dei temi centrali di una nuova dimensione collettiva fondata sull’approccio creativo agli spazi periferici con pratiche associative di progettazione partecipata e volontarismo.
Il quartiere Mirafiori
Il protocollo dei «Nouveaux Commanditaires» nato a Parigi nel ’92 con François Hertz e promosso dalla Fondation de France, importato in Italia dalla Fondazione Olivetti con nuove linee guida, inaugura un metodo che parte dal basso dove il mediatore attraverso un processo di ascolto delle esigenze degli abitanti, propone l’artista idoneo per quella situazione che, con un intervento calibrato sulla piccola dimensione del quartiere, riconfiguri il luogo. Torino, prima sperimentazione italiana dei «Nuovi Committenti» rappresenta un esempio virtuoso di come l’arte possa essere messa a sistema. Solo così potrà creare spazio pubblico all’interno di un programma concreto di rigenerazione della città quale strumento condiviso di ridisegno urbano: attraverso il programma «Urban 2» col supporto di «a.titolo», il quartiere Mirafiori nord è stato riqualificato con interventi mirati a promuoverne lo sviluppo sociale ed economico, nel quadro di un progetto di rivalutazione delle periferie nato nel 1998 e condiviso con associazioni di cittadinanza, circoscrizione ed enti promotori, mediante progetti di Arte Pubblica partecipata. L’idea era quella di rinsaldare il senso di identità e di appartenenza , rafforzare i legami sociali e le relazioni, nel recupero della memoria del quartiere attraverso le narrazioni.
L’Arte (della sfera) Pubblica nasce quindi dal consenso e arriva al destinatario con immediatezza: a fronte dell’esperienza delle pratiche partecipate urbane e territoriali che costituiscono la sua natura, fa della città una sorta di laboratorio a cielo aperto. Va intesa in modo decisamente ampio nelle declinazioni, ma univoco nei metodi e obbiettivi, come una geografia che inglobi funzioni e mondi diversi, una mappa dai confini liquidi e fluttuanti, in cui il confine è in realtà una soglia, uno scambio fluido fra lo spazio dello scarto poetico e il luogo (comune) del sociale, ambiti, codici e discipline: l’atto artistico e l’atto estetico sono metafore dell’esperienza urbana. E dunque se serve a vivere meglio perché non parlare di un’utopia dal volto umano fuori dal suo carattere ideale, più ridimensionata nel suo portato ideologico e proprio per questo più realizzabile (Y. Friedman), che riporti in vita , a fronte dei pregressi fallimenti, il sogno di una città luogo di confronto di varie culture e confluenza di necessità produttive e bisogni umani.
Un ambito in cui convergano ecologia, benessere fisico, percettivo e psicologico, dove la relazione tra spazio pubblico, trasformazione urbana ed esistenza sociale sia complessa e diversificata, aperta all’immaginazione sociale e alle esigenze sentimentali, come sottolinea Alberto Garutti, uno degli artisti più emblematici di un’arte assolutamente Pubblica che parta da un autentico incontro con le persone «attraverso uno sguardo critico, etico ed amoroso».