Il negoziato siriano sta per fallire e le potenze mostrano i muscoli. Ieri il vice presidente Usa Biden, in visita in Turchia, ha rivelato l’intenzione di Ankara e Washington di preparare un intervento militare nel caso il dialogo fallisse. «Sappiamo che è meglio raggiungere una soluzione politica, ma siamo preparati ad una militare per sradicare Daesh». Contro l’Isis e non contro la Siria, ha tenuto a precisare il team statunitense.

Intanto secondo l’Osservatorio Siriano per i Diritti Umani, ingegneri e servizi segreti russi sarebbero arrivati al confine con la Turchia, nella provincia di Latakia. Secondo fonti turche, Mosca avrebbe mandato uomini in una piccola base aerea governativa per trasformarla in un vero e proprio aeroporto in mano russa. Immediata la risposta di Ankara che, secondo il quotidiano Hurriyet, ha inviato carri armati e avviato la costruzione di trincee lungo la frontiera. Interviene anche Damasco: fonti militari siriane hanno detto all’Afp che 100 esperti militari Usa lavorano nella provincia nord di Hasakah per espandere l’aeroporto di Rmeilan, da usare per elicotteri e cargo.

Difficile distrincarsi nel gioco della propaganda incrociata. E se da Riyadh il segretario di Stato Kerry, pur non indicando date, insiste nel dire che il negoziato procederà, la soluzione politica sembra al collasso. Domani a Ginevra Damasco e opposizioni avrebbero dovuto incontrarsi, come previsto dall’accordo internazionale siglato a Vienna a novembre.

Nei giorni scorsi l’Onu era stata costretta a prospettare un breve rinvio, ma il rischio è che quel tavolo non si apra: a tagliargli le gambe sono le opposizioni riunite sotto l’ombrello saudita. Ieri George Sabra, ex presidente della Coalizione Nazionale, federazione delle opposizioni moderate, ha detto chiaramente che i negoziatori non si voleranno a Ginevra fino a quando la Russia non interromperà i raid (ieri un presunto bombardamento russo avrebbe ucciso 29 persone a Khasham, vicino Deir Ezzor) e Damasco non cesserà gli assedi sulle città controllate dai miliziani anti-Assad.

Ma a far traballare il negoziato è anche il mancato consenso internazionale su chi intorno a quel tavolo dovrebbe sedersi. Damasco non intende accettare gruppi islamisti considerati terroristi (tra cui i salafiti di Jayish al-Islam il cui nuovo leader, Mohammed Alloush, ha ottenuto la poltrona di negoziatore delle opposizioni). Dall’altra parte a frenare sono l’Arabia saudita, longa manus dietro il boicottaggio delle opposizioni, e la Turchia che pone come precondizione l’assenza del Pyd, Partito dell’Unione Democratica, rappresentante dei kurdi siriani di Rojava.

Eppure il Pyd non può non esserci: prima forza di difesa del nord della Siria contro l’avanzata dell’Isis, è oggi punto di riferimento sia per Russia che Stati uniti. Washington – che da settimane si appoggia alle Forze Democratiche Siriane, di cui i kurdi sono leader – opta per la solita strategia del piede in due staffe: sì al Pyd, no al Pkk. Biden ieri ha coccolato Erdogan ribadendo avversione per il Partito Kurdo dei Lavoratori: «Non è solo l’Isis a rappresentare una minaccia esistenziale al popolo turco – ha detto il vice presidente – Il Pkk è ugualmente una minaccia. È un gruppo terroristico puro e semplice».

Una dichiarazione netta che spiega bene l’impunità di cui oggi gode Ankara nella brutale repressione del popolo kurdo nel sud est della Turchia: il governo di Davutoglu non potrebbe permettersi tanto senza il beneplacito della Nato.

Eppure le Ypg, il braccio armato del Pyd, e il partito stesso sono l’emanazione siriana del Pkk, di cui hanno per la prima volta applicato il progetto democratico confederale teorizzato negli ultimi 10 anni dal leader-prigioniero Ocalan. La distinzione architettata da Washington è strumentale.

La Turchia lo sa, non si fa abbindolare e insiste: fuori il Pyd dal negoziato o il boicottaggio del dialogo non cesserà. Perché i kurdi siriani sono una minaccia concreta allo Stato-nazione turco: capaci di assumere il controllo di buona parte della frontiera nord tra Siria e Turchia, si muovono verso ovest puntando a creare un’entità autonoma a stretto contatto con i territori kurdi turchi.