Anche un discorso ecclesiastico può non aver bisogno di esegeti. Non necessita di un’interpretazione, per esempio, il discorso di papa Francesco ai movimenti popolari riuniti in Vaticano: un appello chiaro e forte alla lotta dei poveri contro l’ingiustizia. Può essere utile invece inquadrare le parole papali nella storia recente del cattolicesimo e nel contesto del pensiero di Bergoglio.

In primo luogo, è bene sgombrare il campo dagli equivoci.

Non ci sono novità dottrinali nel discorso ai movimenti. Niente che non si possa leggere nelle encicliche sociali degli ultimi venti anni, ovvero da quando la chiesa ha iniziato a fare i conti con la globalizzazione neoliberista.

Basta prendere in mano la Centesimus annus di Giovanni Paolo II per trovare una condanna durissima delle condizioni del Terzo mondo e del pensiero unico capitalista post-’89. Nella Caritas in veritate papa Ratzinger aveva dedicato alcune pagine profonde dal punto di vista teologico-filosofico al bisogno di coniugare la carità con la «la verità di un giusto vivere sociale».

Se oggi percepiamo una svolta nell’atteggiamento della chiesa, i motivi vanno ricercati altrove.

Che Bergoglio avrebbe fatto della povertà il centro del suo pontificato lo si capiva già dalla scelta del nome di Francesco, da lui motivata nell’indicazione programmatica di una «Chiesa povera e per i poveri» (una dichiarazione che richiamava alla mente quella di Giovanni XXIII in occasione dell’apertura del Concilio Vaticano II). Con quel gesto, nuovo e dirompente nella simbologia ecclesiale, il papa ha inserito la propria missione nel solco del pauperismo cristiano: dal poverello d’Assisi ai «profeti» dell’età contemporanea (Charles de Foucauld, Gauthier, Dossetti, ecc). Non era affatto scontato che questa scelta avrebbe portato effettivamente anche a un cambio di paradigma come hanno mostrato invece gli eventi successivi.

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Dopo l’omelia per l’intronizzazione, interamente dedicata alla difesa del Creato, il primo segnale importante di discontinuità discorsiva è venuto dall’esortazione apostolica Evangelii Gaudium, il manifesto programmatico del pontificato.

Vi si possono ritrovare i punti cardini del pensiero sociale di Francesco, gli stessi del discorso ai movimenti: difesa della terra e dei beni comuni, tutela del lavoro, rivitalizzazione della democrazia civile e sociale contro la nuova guerra mondiale causata dai mercati.

Si tratta di un discorso per molti aspetti debitore delle teologie della liberazione, che Bergoglio conosce attraverso il filtro della teologia argentina (Gera, Farrell, Scannone, ecc), ma alle quali preferisce il più recente «Documento di Aparecida», incentrato sulla categoria della «pietà popolare». Riguardo alle conseguenze di questa impostazione, l’impegno per una chiesa povera, per esempio, è diventato il motore di un rinnovamento interno volto a sanare le contraddizioni più stridenti (l’organizzazione della Curia romana, la gestione dello Ior, ecc).

Al livello del linguaggio pastorale, la missione contro la povertà degli ultimi ha preso il posto della battaglia contro la deriva antropologica dell’Occidente e per la difesa dei valori «non negoziabili», scomparsi o quasi dalle omelie e dai discorsi del papa.

Ora, come è emerso anche dall’ultimo Sinodo dei vescovi, siamo di fronte a un percorso complesso, che incontra resistenze e che conserva al proprio interno elementi di forte continuità con la stagione precedente: basti pensare alle difficoltà che le chiesa incontra ancora oggi nel formulare una riflessione sulle famiglie e sulla sessualità al passo con le richieste della maggioranza dei credenti.

Tuttavia, al di là delle incertezze che ancora avvolgono questi interventi, la svolta è già nei fatti perché gli elementi che compongono il discorso pubblico (la pastorale) non sono più gli stessi come ormai è sotto gli occhi di tutti.

Ecco allora che il discorso del 28 ottobre ai cartoneros, ai Sem Terra e ai movimenti popolari presenti in Vaticano colpisce e convince non solamente per la scelta degli interlocutori, per chi lo pronuncia (un vescovo che le periferie le ha vissute in prima persona) e per i contenuti radicali di certi passaggi, ma soprattutto perché suona, anche a chi non crede, come vero, credibile e non come l’ennesima predica «di appendice» a una realtà ecclesiale chiusa in difesa della propria diversità.

Quando il papa afferma che «esigere terra, casa e lavoro è la dottrina della chiesa» segna uno scarto con le pratiche precedenti di ricomposizione del campo religioso. Al tempo della «fine delle società» (per riprendere la nota formula del sociologo francese Alain Touraine), torna all’essenzialità del Vangelo e lancia una proposta pastorale che parla agli ultimi, alle vittime della crisi economica e del neoliberismo tanto nei paesi del sotto-sviluppo, quanto nell’Europa unita.

La capacità performativa di questo tipo di discorso dovrebbe far riflettere chi considera quelle del lavoro, dei diritti e della giustizia sociale categorie politiche del secolo scorso.