Nonostante la rivoluzione digitale si sia impossessata dei suoi processi creativi e di comunicazione, sembra che la moda si debba rassegnare a farsi rappresentare dai manichini. Mentre si fanno sempre più insistenti le voci che la mostra evento del 2017 del Costume Institute del Metropolitan Museum di New York avrà per soggetto l’autrice della moda più concettuale che possa esistere, Rei Kawakubo (dopo Yves Saint Laurent è la seconda stilista vivente a cui viene dedicata una mostra), il museo ha appena comunicato con grande orgoglio che «Manus x Machina: Fashion in an Age of Technology» ha chiuso con il record di 753 mila visitatori e si è posizionata settima tra le mostre blockbuster della storia del museo, appena sotto «Treasures of Tutankhamun» (1978) e «Mona Lisa» (1963).

 

 

La classifica la vede addirittura al secondo posto tra quelle di moda, sotto gli 815 mila visitatori dell’ancora più facile «China: Trough the Looking Glass» (2015) e sopra i 500 mila della più complessa Alexander McQueen «Savage Beauty» (2011) che, però, nel 2015 al Victoria and Albert di Londra ha conquistato altri 661,5 mila visitatori.

 
Dato che in «Manus x Machina» il pubblico ha potuto vedere degli abiti esibiti sui manichini esattamente come nelle vetrine dei negozi, il suo successo sposta l’attenzione su quale significato debbano avere le mostre di moda oggi che, tra ingressi e merchandising, portano molti soldi nelle casse delle istituzioni museali. Le quali, infatti, stanno preparando un’invasione di fashion exhibition da far tremare i polsi ai responsabili delle sezioni e delle gallerie di arte contemporanea. Proprio per questo, molti curatori si chiedono se è giusto far arrivare tanta gente nei musei per vedere degli allestimenti che hanno la stessa inventiva richiesta ai vetrinisti. Per esempio, Hans Urlich Orbist, curatore di «The Extraordinary Process» (16 sett. – 16 nov. alla Maison Mais Non di Londra), una mostra nata da un’idea della scomparsa archistar Zaha Hadid, è convinto che vestire i manichini in un museo sia «un doppio omicidio, della moda e delle mostre, perché nell’era digitale le mostre di moda devono trasferire un’esperienza multisensoriale». Al contrario, Ben Whyman, responsabile del Centre for Fashion Curator, sostiene che le mostre sulla moda devono esibire solo i vestiti che, una volta nei musei, acquisiscono un valore di attrazione eccezionale sul pubblico.

 
La scontro fra le due visioni rischia di diventare ideologico. Intervenendo sul «Financial Times» per presentare «The Vulgar: Fashion Redefined» (13 ott. – 5 febb. al Barbican di Londra), la mostra che esplora l’evoluzione del senso della volgarità nella moda dal Rinascimento a oggi, la curatrice Judith Clark scopre il vaso di Pandora: «Ormai le mostre si fanno per guadagnare soldi, non per investire sulla sperimentazione».

 
Su questa tensione tra la rincorsa al commerciale e la necessità creativa, che crea visibili contraddizioni, rischia di rompersi l’elastico che tiene insieme tutta la moda di questi anni. manifashion.ciavarella@gmail.com