Trovandosi a fare i conti con l’invasione digitale e con la preminenza del virtuale sulla vita reale, la moda sembra essere assalita dall’ossessione della rete. Il che non sarebbe affatto strano se la preoccupazione di tanta virtualità non l’avesse trovata impreparata, visto che i rimedi dell’ultima ora sono soluzioni che sembrano vecchie rispetto ai confini sempre più nuovi del digitale. Tanto più visto che oggi le aziende della moda si precipitano ad aprire account su Facebook, Instagram e simili, o a far scattare selfie alle modelle in passerella, e quindi non tengono conto che, nel loro stesso mondo, nel 2012 Diane Von Furstemberg ha trasmesso la sua sfilata in diretta con i Google Glass di Sergey Brin, il fondatore di Google, e che nell’ottobre del 2009 Alexander McQueen ha mandato in diretta streaming la sua sfilata testamento Plato’s Atlantis. Quindi, visto che la moda è per definizione un settore dell’avanguardia, si dovrebbe pensare che la rivoluzione tecnologico-digitale-virtuale successiva doveva prevedere qualcosa di più.

E invece, giornalisti e stilisti continuano a parlare di eventi pensati appositamente per internet, dimenticato che ormai è stato tutto già fatto. E quindi, per la logica di Instagram e Snapchat, gran parte delle strategie digital sono già vecchie. Va detto, a onor del vero, che non si notano aziende e marchi falliti solo a causa di una non presenza frenetica sul web.
Fatto è che aziende e stilisti dicono che non possono fare a meno di prendere le ispirazioni dalle piattaforme social, per poi trasformare le stesse piattaforme in strumenti di comunicazione e di marketing, con annesso shop-online per la vendita. E ci sono anche fashion designer che si vantano di fare una «moda fotogenica», cioè buona solo per essere la protagonista di post sui social network. Così, secondo loro, nasce un’aspirazionalità di massa, senza capire che si tratta di un fenomeno acritico e isterico sempre pronto a cambiare leader.

Ma questa operazione avrebbe senso se i social network fossero capaci di costruire delle tribù che si fidelizzano all’estetica che lo stilista costruisce con i suoi vestiti e che, oltretutto, abbiano la relativa capacità di spesa. Altrimenti le immagini postate su ogni piattaforma restano inutili brioches lanciate a folle indistinte di followers wannabe che percepiscono solo l’aspetto «ricchi premi e cotillon», senza potersi permettere l’acquisto di quello che seguono.

Il vero problema è che il dibattito confonde le strategie commerciali e di comunicazione con quelle creative. Proprio perché dimentica che il designer di moda ha il dovere di funzionare come una piattaforma di idee e non, come fanno molti, essere l’assorbente delle idee altrui viste sulla rete, dove poi le re-immette in forma di fotografie. Ecco perché si è creato quel cortocircuito che oggi autorizza i followers, per quanto wannabe, a pensare che un vestito vale l’altro purché sia indossato da una celebrity. E, nonostante l’invasione di post, le vendite restano al palo.

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