L’ultimo saggio di Manlio Graziano (Guerra santa e santa alleanza. Religioni e disordine internazionale nel XXI secolo, Il Mulino) indaga la trasformazione in corso nel rapporto tra politica e religioni e demolisce i cavalli di battaglia delle nuove destre. Il punto di vista è quello dello studioso di geopolitica delle religioni. In estrema sintesi, la tesi del libro è che la «guerra santa» e la ricerca di una «santa alleanza», di cui la Chiesa cattolica intenderebbe mettersi a capo, sono due facce del medesimo processo di desecolarizzazione. Con la crisi della sovranità degli Stati-nazione – spiega Graziano – le religioni sono tornate a fornire un orizzonte di senso e per questo sono sfruttate oggi a scopi non religiosi: vincere le elezioni, mobilitare le masse, fare le guerre. L’inizio del ritorno risalirebbe agli anni Settanta, quando nel Terzo Mondo una rapida industrializzazione ha sconvolto equilibri plurisecolari e il mondo avanzato non è stato più in grado di mantenere le sue promesse di «magnifiche sorti progressive».

Negli Stati Uniti e in Europa la «crisi della modernità» ha restituito alle religioni la loro funzione di conforto e di supplenza alle insufficienze del sistema pubblico. In alcuni paesi islamici lo scenario si è modificato radicalmente: alla metà del Novecento Baghdad era una città in cui digiunare per il Ramadan era considerato una stravaganza; a Kabul le donne potevano andare all’università in minigonna. A provocare tale trasformazione – prosegue l’autore – sono stati processi di urbanizzazione di massa e la diffusione delle «teologia della prosperità» (evangeliche, islamiche, confuciane, ecc). Infine, le religioni sono state utilizzate per ridefinire le identità politiche, e in questa prospettiva rientrano lo «scontro di civiltà» nella versione di Samuel Huntington e il Jihad fondamentalista. Declinata la parabola del nazionalismo arabo, l’islamizzazione del potere è scaturita dai movimenti studenteschi che negli anni Settanta e Ottanta hanno infiammato le università in l’Egitto, Afghanistan e Iran.

In «Occidente» è stato decisivo il tramonto dell’ordine internazionale nato dalla Seconda guerra mondiale. Già il rilancio della presenza cattolica in politica da parte di Giovanni Paolo II, da un lato, e il crescente ricorso alla religione nelle compagne presidenziali americane, dall’altro, avevano segnato un cambio di passo. Dopo l’11 settembre, le inattese difficoltà in Iraq e l’ascesa rapidissima della potenza cinese hanno sancito l’idea del declino americano alimentando la sindrome da assedio. Agli occhi dell’Occidente l’islam ha assunto un profilo unitario e intransigente, funzionale alla politica aggressiva statunitense e alla campagna della destra europea contro i processi migratori. Nello stesso tempo, sono scaturiti nuovi assi strategici come quello iraniano-europeo, venuto meno nel 2003, e l’«Alleanza delle civiltà» promossa dalla Spagna e dalla Turchia contro la Global War on Terror.

Nel giustificare queste alleanze – argomenta l’autore – le religioni hanno svolto una funzione preziosa, tuttavia solo la Chiesa cattolica, unica istituzione gerarchica globale, riesce oggi ad avere un ruolo non puramente strumentale. Sotto i pontificati di Wojtyla e Benedetto XVI il cattolicesimo si è proposto come un mediatore etico primario coinvolgendo tutte le confessioni che intendono contrastare la «deriva antropologica». In questo quadro, l’attuale pontificato rappresenterebbe l’ultima evoluzione di una Chiesa che «non si fonda più sulle rendite di posizione e diventa “Chiesa in uscita”». Un’affermazione condivisibile, ma che non coglie la discontinuità.

La novità di papa Francesco, infatti, consiste nella scelta di recuperare una teologica politica che metta in primo piano il «discernimento» a discapito del modello «post-secolare» targato Habermas-Ratzinger, un modello che puntava al ritorno della religione come strumento di unificazione politica del continente europeo e come orizzonte condiviso di valori culturali dai quali attingere anche in politica. Come dimostra anche il recente discorso del papa al Parlamento di Strasburgo, questa impostazione non è stata abbandonata del tutto, ma sicuramente è uscita modificata in alcuni punti sostanziali. Il progetto «post-secolare» ha lasciato il posto alla «linea della testimonianza» (nel rispetto della laicità) e alla denuncia sociale, probabilmente molto più efficace nel garantire alla Chiesa visibilità e consenso. Tornando al quadro generale, bisogna ancora riflettere sul concetto di de-secolarizzazione, peraltro contestato da molti sociologi sulla base di inchieste e statistiche, e domandarci se ciò che avvertiamo come un «ritorno» non sia piuttosto una ricomposizione dello scenario religioso e un riposizionamento (attivo e passivo) della religione nella gerarchia della politica. Dalla sfera pubblica il credo non era infatti mai uscito e il suo utilizzo strumentale è una costante facilmente riscontrabile.