Denunciare il modo in cui cambia l’esito dell’arte a seconda di dove nasce l’artista è forse l’impegno più vibrante che Ian Brennan si è preso nel suo poliedrico andirivieni professionale: da un lato musicisti che il mondo dovrebbe assolutamente conoscere (e mai potrebbe altrimenti, se non li scovasse lui), magari provando anche a localizzare i paesi da cui provengono; dall’altro le tecniche di risoluzione dei conflitti e prevenzione della violenza portate in scuole, carceri, campi profughi, un armadietto di pronto soccorso sociale pieno di Antidoti alla rabbia, come recita il titolo di un suo libro del 2011.

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Ian Brennan nella prigione di Zomba, in Malawi (foto Marilena Delli)

Ultimamente lo abbiamo visto strappare al silenzio i veterani finalmente vietnamiti della guerra del Vienam; trasformare in piccole star internazionali dei ragazzini del Malawi che sulla nuda strada intrattengono i clienti – i viaggiatori che si fermano per assaggiare i loro spiedini di topolini, una leccornia locale – con voci d’angelo e strumenti autocostruiti a partire da materiali di scarto; intrufolarsi in un penitenziario per tirarne fuori – ancora una volta – canzoni più che degne di circolare liberamente. Anche per questo accento “carcerario” potrebbe sembrare un novello Alan Lomax. Ma ripetto ai tempi delle ricerche condotte dal pioniere dell’etnomusicologia e delle registrazioni sul campo, ad essere drasticamente cambiato è appunto il campo. «Sono poco interessato al folklore e all’etnomusicologia – dice -, il mio lavoro è quello di scovare i cantanti e gli autori più interessanti e unici, a prescindere dal luogo da cui provengono».

Infatti per cose come Malawi Mouse Boys e General Paolino, per citare un paio di tue produzioni, dovremmo forse parlare di registrazioni sul campo “pop”. Un nuovo genere.
Tutte le registrazioni in fondo sono «sul campo». Il guaio è quando gli studi sono equipaggiati tutti allo stesso modo e gli ambienti somigliano a bunker, artificiali e indistinguibili. Le registrazioni dovrebbero mostrare il DNA di un tempo e di uno spazio. Ambire alla perfezione tecnica prima che all’espressione di un’emozione e di un’umanità porta in un vicolo cieco e sostanzialmente limita il contributo che la musica può dare culturalmente e spiritualmente. Per me l’unica demarcazione che conta per l’arte è se è onesta o disonesta. In questo senso Nina Simone, Jovanotti, i Sex Pistols, Nusrat Fateh Ali Khan e Missy Elliott fanno tutti lo stesso tipo di musica, naturale e strutturata. E in un mondo ideale le loro canzoni verrebbero suonate una accanto all’altra alla radio e alla tv, senza arbitrarie divisioni stilistiche né segregazioni linguistiche.

A proposito dell’evidente ineguaglianza che investe il mercato globale della musica. Anche quando ha successo, un artista del sud del mondo è quasi sempre “world”. Cosa ne pensa il vincitore di un Grammy nella categoria “world music”?
Sì, è proprio una etichetta bizzarra, dal momento che tutta la musica viene da qualche parte del mondo e che dobbiamo ancora ascoltare musiche extraterrestri (forse un giorno capiterà). Anche all’interno del mercato della world music, alcuni paesi vengono ingiustamente provilegiati – di solito quelli con una popolazione più numerosa, strade migliori e, cosa che aiuta parecchio nella comunicazione, una storia di colonialismo inglese o francese alle spalle. Per dire, il premio Grammy quest’anno ha preso in considerazione oltre 21 mila dischi. Il problema è che provenivano da appena un paio di dozzine di paesi, un piccolo frammento rispetto ai quasi 200 presenti sul pianeta. Il che equivale a una forma passiva di censura.

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Uno degli artisti coinvolti in “Hanoi Masters” (foto Marilena Delli)

Sugli effetti culturali della guerra americana in Vietnam, il tuo Hanoi Masters sembra quasi un modo di vendicare il lato negletto della storia…
Da anni volevo fare qualcosa sui veterani del Vietnam, sull’altro lato della guerra, quindi Hanoi Masters è il risultato di una visione che ha avuto una lunga gestazione. Il trauma emozionale che molti veterani americani hanno subito è stato profondo e ampiamente “pubblicizzato”. Per contro, ancora oggi il dolore dei soldati vietnamiti non l’ho sentito menzionare neanche una volta, negli Stati uniti. Ora, è chiaro che deve esserci stata un’analoga, profonda esperienza individuale. Crescendo a San Francisco, ho visto i rifugiati vietnamiti che arrivavano stipati sui barconi dopo la guerra. Allo stesso modo ho visto i soldati americani che tornavano: molti sono finiti sulla strada, homeless e alcolizzati, negli stessi sobborghi in cui si concentrava la maggioranza degli immigrati. La triste ironia è che queste due popolazioni s’incontravano di nuovo, ancora in circostanze tragiche, ma stavolta su un altro continente. Purtroppo la musica occidentale ha decimato le tradizioni locali nel sudest asiatico. Da poco sono stato in Cambogia e tra i 20 brani più ascoltati del momento c’erano 19 canzoni cantate in inglese da artisti americani o britannici! Il colonialismo è vivo e vegeto, è stato solo trasferito nell’ambito della cultura.

Quale dei tuoi tanti progetti ti ha dato maggiore soddisfazione, e qual è stata la peggiore esperienza?
Ho imparato qualcosa da tutti gli artisti con cui ho lavorato, che lo volessi o meno. Se restiamo aperti, la scomoda verità è che di solito il massimo beneficio arriva dalle critiche più meschine e dai nostri fallimenti. La speranza è che imparando qualcosa da ogni esperienza, a prescindere da quanto negativa sembri al momento, ogni artista può agire come un ponte e un amplificatore per altri artisti e altri progetti. Certo, vedere quanto è migliorata la qualità della vita di tutti i giorni dei Malawi Mouse Boys, dopo i cd e i tour che abbiamo fatto insieme, è stato gratificante. Ora mi preoccupa come rendere questi cambiamenti sostenibili per loro e per le loro famiglie. Ma è stato eccitante, un po’ come lo è stato produrre il concerto gratuito durante le lotte per la casa a San Francisco, nel 2000, con i Fugazi. Non avevamo idea di quanta gente sarebbe venuta e se sarebbe venuta. Alla fine il parco fu invaso da 10 mila persone e tutto filò pacificamente malgrado l’assenza di misure di sicurezza. È stato un momento meraviglioso.

Cosa ti ha portato a focalizzare l’attenzione sul Malawi?
Con mia moglie Marilena Delli, il cui contributo fotografico e cinematografico ai vari progetti è indispensabile, cerchiamo di non privilegiare un paese o una regione in particolare, preferiamo concentrarci sul maggior numero possibile di popolazioni sottorappresentate nel mondo: ce ne sono fin troppe, malauguratamente, in numero di gran lunga superiore a quelle rappresentate. Tra queste abbiamo preso alcune delle più povere, in Sud Sudan e in Ruanda. Il Malawi è un posto speciale per questioni sentimentali, il padre di Marilena vi ha lavorato per decenni come volontario. Lì abbiamo ricevuto un aiuto immenso dalla comunità di Montfort e dal bergamasco padre Gamba, che è entrato nella storia del Malawi come una figura rivoluzionaria, per aver fondato la prima radio non governativa e un giornale che hanno avuto poi un ruolo nella sconfitta del leader autocratico che c’era prima (Hastings Banda, dal 1961 al 1994 a capo di uno dei regimi più sanguinari del continente africano, ndr).

Come ti senti di fronte allo sfruttamento delle tue “scoperte di strada” da parte dell’industria della world music?
Quello della musica world è un mercato minuscolo, quindi i rischi di sfruttamento sono minimi. Anche le superstar qui hanno opportunità limitate rispetto a monolitici artisti occidentali come Beyonce o gli U2. La battaglia è quella di far passare il messaggio che ogni cultura è diversa e sfumata a modo suo. Una band sud-sudanese non è uguale a tutto il Sud Sudan e alla sua popolazione, non più di quanto Justin Bieber possa essere considerato l’unico in grado di identificare il Canada (oddio, speriamo di no).

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Zomba Prison, Malawi (foto Marilena Delli)

Hai mai pensato di proporre su vasta scala le tue tecniche di risoluzione dei conflitti? Il mondo sembra averne un dannato bisogno…
La chiave è abbandonare l’idea che un giorno elimineremo assassini, stupri, avidità, disonestà. Certi mali sono sempre esistiti e sempre esisteranno. La sfida semmai è in che misura. Anziché cercare di «eliminare la fame», come diceva ingenuamente, sebbene ammirevolmente, un recente concerto di superstar, dovremmo lavorare quotidianamente per ridurre gli effetti di questi elementi indesiderati. In tutto ciò è molto importante chiederci «perché?» ogni volta che certi comportamenti si manifestano in modo sproporzionato. Se la violenza casuale è molto più comune in America che in qualsiasi altro posto, la cosa dovrebbe imporre ulteriori indagini. Soprattutto perché esiste la prova, in altre culture contemporanee, che quel tipo specifico di violenza non è inevitabile, né necessariamente prevalente. Per liberare le persone da primitive e autolesionistiche trappole binarie può essere utile portarle a “pensare in tre”. La struttura tripartita è essenziale per superare le false dicotomie: c’è un’estremo nel quale non vogliamo trovarci e un estremo opposto che incarna il nostro desiderio, ma quello che è più importante e che di solito dimentichiamo, è il punto in cui in realtà ci troviamo. L’energia andrebbe utilizzata non per raggiungere un luogo idealizzato, ma piuttosto per avanzare pochi centimetri alla volta, in ogni modo possibile, verso una direzione costruttiva. Progredire lentamente in quella direzione è più redditizio che pretendere la perfezione. Il desiderio di perfezione spinge allo sfinimento e al cinismo, porta ad alzare le mani e ad arrendersi alla prima cosa che non va, invece di riconoscere i progressi fatti – per quanto piccoli e imperfetti – e il modo in cui le cose stanno effettivamente funzionando.

Ma spesso la gente sembra trovarsi proprio all’estremo in cui non desidera stare.
Ci sarà sempre qualcuno che resta bloccato a un estremo, infelice di qualsiasi risultato. Ma il compromesso è indispensabile per la coesistenza, bisogna accettare che le relazioni possano essere sostenibili anche quando sono imperfette. Per le nazioni e le culture, gli orientamenti del passato devono essere sacrificati in nome del futuro. Altrimenti siamo destinati a restare prigionieri della storia, e piuttosto che a trascendere dal nostro destino a ripeterlo.

Il blues viene dalla schiavitù, molte musiche nascono dal dolore della distanza e della separazione, le canzoni che hai raccolto nel carcere di Zomba sono la risposta alla perdita della libertà. Si tratta di un paradigma? No sofferenze, no buona musica?
Credo sia un mito insano. Pensare che l’arte venga dalla sofferenza, dalla malattia mentale e dagli stati di alterazione ci rende un pessimo servizio. I grandi artisti sono tali perché creano nonostante questi ostacoli, il che in un certo senso resta la più grande testimonianza della loro forza individuale: possono essere bipolari o alcolisti furiosi, eppure ancora in grado di scrivere e comporre in un modo che milioni di persone sobrie, intelligenti, disciplinate, “sane” e bene educate si possono solo sognare. L’arte non è matematica. Quello che può funzionare sulla carta – avere tutta una serie di elementi prestabiliti – può miseramente fallire nella realtà. Ecco perché il talento raramente può essere replicato a tavolino. Perché la grande arte viene da nessun posto (e da tutti i posti allo stesso tempo). Quello che quasi sempre viene richiesto a un artista – almeno nella sua arte – è empatia. E quasi tutti gli individui che sul pianeta vivono fuori dalle tendenze dominanti – siano essi donne, di orientamento non eterosessuale, portatori di qualsiasi restrizione fisica, e/o del “colore sbagliato” – sono costretti quasi ogni giorno a confrontarsi con l’”altro”. L’arroganza se la può permettere a lungo solo chi beneficia direttamente delle ineguaglianze esistenti. Chi è oppresso è per necessità molto più cosciente e sensibile dei suoi oppressori e non viceversa – specie se il potere ci racconta che viviamo in un’era di “libertà”. Gli oppressi sono per costituzione dei sopravvissuti. Sono stati messi alla prova e come risultato i loro spiriti si sollevano o precipitano in modo più drammatico. Perciò c’è una profondità nell’espressione che gli altri possono al massimo tentare di imitare, senza mai eguagliarla o superarla. Sono stati forgiati dall’esperienza loro malgrado, senza rete di salvataggio né alternativa, senza un piano B. La popular culture è la forma più potente mai originata dalla gente. Vedere come sempre di più sia diventata un’aristocrazia nella quale solo il più ricco e/o connesso controlla le principali piattaforme, è una delle più orribili rapine della storia e fa presagire il peggio per la democrazia. Dobbiamo far sentire le nostre voci prima che vengano silenziate completamente, sommerse dal chiasso delle corporation dei media, un baccano astutamente mascherato da ribellione giovanile, insieme a generazioni di superflui album incisi dalla progenie della progenie di Bob Marley e simili, fino alla nausea.

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