Dicembre 2015. Esattamente un anno fa, Donald Trump, la bestia nera dei repubblicani che già consolidava la sua posizione in testa nelle primarie del Gop, dovette cancellare la sua visita in Israele, concordata con Netanyahu, con l’idea di poter disporre del sostegno della comunità ebraica Usa più legata a Bibi.

L’allora candidato repubblicano era in quei giorni sui giornali di tutto il mondo per le sue bordate anti-islamiche e per il suo proposito, se eletto presidente, di chiudere le frontiere ai musulmani e di porre sotto controllo i cittadini americani fedeli di Maometto. Alla notizia dell’arrivo di Trump, il parlamentare arabo Ahmad Tibi chiese che fosse cancellata la visita del «neonazista» americano. Non fu una voce isolata.

Alla sua protesta s’unì l’indignazione dei deputati del centro e della sinistra, ma anche quella di un ministro, Yuval Steinitz, titolare dell’energia e amico di Netanyahu. Fatto sta che perfino Bibi si rese conto che la visita di Trump rischiava di trasformarsi in un boomerang, per Israele stesso, e all’amico Donald consigliò di rinviare il viaggio.

Dicembre 2016. J Street, il gruppo di pressione degli ebrei progressisti, diffonde una nota in cui si condanna l’ambasciatore d’Israele a Washington, Ron Dermer per aver preso appassionatamente le parti del Center for Security Policy (Csp) e del suo fondatore Frank Gaffney, e per aver accettato un premio dal Csp stesso nel corso di un gala a New York. IL Csp è un’organizzazione di estrema destra islamofoba e razzista. Derman, scrive J Street, «danneggia i principi fondamentali sui cui poggia la relazione Usa-Israele e fa un grave disservizio al suo governo e alla nostra comunità».

Tutto questo prima che fosse diffusa la notizia della nomina ad ambasciatore degli Usa in Israele di David Friedman, un’idea folle per il prossimo futuro del Medio Oriente e «un anatema nei confronti dei valori sui si fonda la relazione tra Usa e Israele», come denuncia in tweet Jeremy Ben-Ami presidente di J Street. Che annuncia battaglia per impedire la ratifica parlamentare della nomina di Friedman, noto anche per aver definito «kapo» Ben-Ami e la sua organizzazione.

Gli occhi sono puntati sulle ripercussioni in Medio oriente, ma effetti collaterali molto seri e probabilmente profondi e duraturi sono già visibili nella comunità ebraica americana, più divisa che mai, divisioni che riflettono, sia pure in misura minore, quelle che sono evidenti anche in Israele, tra la granitica egemonia di Bibi e una flebile e divisa opposizione.

Gli ebrei americani sono tradizionalmente democratici. E anche nelle recenti presidenziali l’hanno confermato, dando il 75 per cento dei loro voti a Hillary e ai candidati dem al Congresso. E molti donor ebrei spiccano tra i finanziatori della campagna clintoniana. Sul versante opposto, si sono mossi a sostegno di Trump donor molto munifici, alcuni dei quali sono molto influenti anche in Israele, a favore di Netanyahu. Tra questi soprattutto il magnate dei casino Sheldon Adelson e la moglie Miriam.

Sono gli stessi che hanno alimentato campagne ostili verso la presidenza Obama, gli stessi che, in combutta con i parlamentari della destra più oltranzista, hanno organizzato l’incredibile performance di Netanyahu di fronte al Congresso, un discorso contro il disgelo con l’Iran, un’aperta intromissione nella politica della Casa bianca.

Il sodalizio tra Bibi e questi settori conservatori ebraici in alleanza con la destra repubblicana e con la destra evangelica mette in evidente difficoltà una comunità ebraica nella quale una componente importante – intellettuali, accademici, giornalisti – considera deleterio e distruttivo, per Israele stesso e per la diaspora, un rapporto simbiotico come quello che cercano di costruire personaggi come Bibi, Adelson e Friedman.

La frattura tra queste due visioni non è di oggi, accompagna la lunga fase del dominio incontrastato di Netanyahu in Israele. Ma se finora è stata oggetto di discussione all’interno della comunità ebraica, adesso, con Trump, la crisi esplode in tutta la sua gravità.