Un inaspettato passion project del regista di Independence Day, che l’ha finanziato quasi interamente di tasca sua, Stonewall celebra la riot del giugno del 1969 a cui simbolicamente si attribuisce la nascita del moderno movimento gay.

Usando certi stilemi narrativi e la luce del melodramma classico, più implausibili momenti in cui il film sembra stare per trasformarsi in un musical (tra Fame e West Side Story), il roboante regista tedesco, affida il filo della storia a un «tipico» ragazzo di provincia (Indiana) che arriva a New York con la classica valigia di cartone dopo essere stato buttato fuori di casa dal padre (allenatore del team sportivo del liceo) che lo ha scoperto gay.

In attesa di iniziare a frequentare i corsi di astronomia della Columbia, dalla fermata della metropolitana di Christopher Street, Danny sbuca nel cuore di Greenwich Village, che Emmerich e il suo sceneggiatore (il commediografo newyorkese Jon Robin Baitz) immaginano come una versione metropolitana di L’isola che non c’è di Peter Pan, popolata di giovanissimi gay, abbigliati in vari livelli di «travestimento», che di giorno vivono in strada e di notte si ammucchiano a dormire in piccoli appartamenti sopra la Stonewall Tavern, un bar omosessuale di proprietà dalla mafia.

La polizia arriva di frequente, arrestando chi è vestito da donna, le lesbiche (perché sono vestite da uomo) e chi non ha i documenti. Tra una retata e l’altra, gli agenti sfogano la loro omofobia a colpi di manganello, nei vicoli circostanti. Ben intenzionato quanto mortalmente piatto, Stonewall è un film che denuncia la persecuzione di un orientamento sessuale, ma in cui il sesso quasi non c’è. Qualche bacio, due corpi sotto le coperte in controluce, alcuni gemiti nel buio della Stonewall Tavern, ma parecchie scene di gelosia.

Quasi completamente assente, infatti, è anche la promiscuità che ha definito in modo così profondo la scena gay newyorkese di quegli anni. In questo Greenwich Village chiaramente ricreato in studio e a cui manca qualsiasi traccia di New York (quella reale, ma anche quella stilizzata in tanti capolavori hollywoodiani) oltre ai ragazzi di strada e alla polizia, ci sono anche gay «adulti», che portano avanti i diritti omosessuali a forza di riunioni inutili e una coppia di vecchi gay, ricchi e perversi, che pagano a Ron Perlman una fornitura regolare di ragazzini freschi. La scena in cui Danny finisce nelle loro grinfie è una delle peggiori.

Danny diventa amico dei «lost boys», che lo ospitano e lo proteggono. E la notte della riot, scoppiata dopo l’ennesima retata della polizia alla taverna, è lui – il bianco, middle class, che ha famiglia e va bene a scuola, non le drag queen nere e portoricane – che lancia il primo mattone contro i vetri dell’edificio dove sono assediati dei poliziotti.

Il film è così normalizzante che anche lo scoppio delle violenza sembra una versione annacquata e frettolosa di quella notte, a cui ne seguì un’altra altettanto tumultuosa, che qui non è citata. Scopriamo però che Danny ottiene la sua borsa di studio alla Columbia e fa un viaggio a casa, in Indiana, a trovare sua sorella. La mamma finirà per accettareay; il padre no. Alla boheme del Village tornerà ogni tanto, ma un po’ «da turista». Come quelli a cui sembra destinato questo film, carico di buoni propositi, ma anche di moralismo e superficialità.