Ci sono momenti nella storia in cui grandi eventi si susseguono con incredibile rapidità. Nella drammatica storia della Terra Santa questa sembra essere diventata una regola e così anche il recente viaggio di papa Francesco appare già come un qualcosa del passato, un ennesimo, per quanto autorevole, sforzo di pacificazione superato dalle cronache di guerra. Eppure, la storia è fatta di tempi lunghi, di stratificazioni secolari, di scontri che attendono ancora di risolversi in soluzioni al momento imprevedibili. È questo il messaggio che ha voluto lanciare il pellegrinaggio del pontefice: una missione compiuta nella prospettiva del «segno» e dunque nel tempo della «profezia», la sola capace di dare forma alla realtà enunciandone la riuscita.
Nel volume Francesco in Terra Santa (ETS, pp. 112, euro 12), Enrico Catassi e Alfredo De Girolamo ripercorrono le tappe di questo evento in un diario laico, attento nel fotografare (anche grazie a uno splendido apparato di immagini) le molteplici dimensioni della proposta di pace avanzata da Francesco. I due autori hanno alle spalle una lunga esperienza nella cooperazione allo sviluppo, in Israele e nei territori occupati. Già autori di Kibbutz 3000, un’interessante inchiesta sulla realtà dei kibbutzim e sulla loro organizzazione attuale, hanno seguito tappa per tappa la missione pontificia: dalla meditazione a Betania dove Gesù, secondo la tradizione, ha ricevuto il battesimo e dove il papa ha denunciato le ingiustizie della «globalizzazione dell’indifferenza», fino alla visita in Gerusalemme al Cenacolo, luogo oggetto di frizione tra il Vaticano e Israele e in cui, per la prima volta, è stato concesso al papa di officiare la messa.
In quell’occasione, Francesco ha ricordato l’unità delle famiglie cristiane, un’unità che si riconosce nei luoghi della Terra Santa, ma che attende ancora di superare le fratture della storia. A cinquant’anni dallo storico incontro tra Paolo VI e il patriarca Atenagora, quando per la prima volta a Gerusalemme venne aperto il confine e consentita la libera circolazione tra la parte israeliana e quella araba per permettere il passaggio di Montini, papa Bergoglio e il patriarca Bartolomeo hanno rinnovato l’impegno delle rispettive chiese alla riconciliazione e quindi alla comune testimonianza di pace per l’intera umanità.
Sul versante politico-diplomatico della visita, l’incontro con i vertici dell’Anp a Betlemme, in una vistosa scenografia di bandiere palestinesi e con una simbolica Natività avvolta nella kefiah, e la preghiera con la testa appoggiata sul muro di separazione, sotto la scritta Free Palestine, sono scatti e gesti che attestano un coinvolgimento nelle sofferenze del popolo palestinese certo non protocollare. Se l’omaggio del papa al memoriale delle vittime del terrorismo a Gerusalemme sarebbe stato richiesto da Netanyahu, rituali non lo sono state neppure le dure condanne rivolte agli attentatori alla Sinagoga di Bruxelles, la commozione di fronte ai sopravvissuti all’Olocausto, quattordici anni dopo il «mea culpa» di Giovanni Paolo II al Muro del Pianto, e poi l’incontro con i rappresentanti delle famiglie ebraiche sefardite e askenazita, in cui il papa ha ricordato la dichiarazione conciliare Nostra Aetate sulle relazioni con le religioni non cristiane e sullo stretto legame con l’ebraismo. L’invito a Abu Mazen e Shimon Peres a incontrarsi in Vaticano per negoziare la pace, accolto da entrambi gli interlocutori, può essere considerato la diretta conseguenza di un impegno pastorale che si propone di raggiungere anche uno sbocco di tipo politico.
A questo proposito, i due autori mettono in evidenza come, in questo difficile ventennale dall’avvio delle relazioni diplomatiche tra Santa Sede e Israele, Peres sia per il papa la «colomba sui cui puntare»in un momento in cui i grandi leader storici delle due parti in causa sono usciti di scena e la capacità di mediazione americana risulta gravemente insufficiente. In seguito alll’invasione di Gaza, Bergoglio ha contattato nuovamente i due capi di Stato per chiedere la fine delle ostilità: ultima mossa diplomatica di un progetto le cui diverse dimensioni sembrano evidentemente convergere in un’unica direzione.
Polisemica e giocata su piani e tempi diversi, la scommessa sulla pace del papa mira a far interagire la politica con la profezia, la religione con il secolo, la tradizione con il presente. Come emerge anche dalla lettura di questo appassionato reportage, la capacità performativa della missione di Francesco interrogano il mondo perché parlano un linguaggio universale pronunciato nella terra ritenuta radice della società occidentale. Il portato storico delle religioni rivolto verso la costruzione di un futuro che oggi più che mai appare tragicamente lontano.