A Kabul è appena finito un incontro tra membri del governo e inviati della comunità internazionale con un titolo persino sarcastico: «Addio al conflitto, benvenuto allo sviluppo». Nelle stesse ore, l’ospedale di Emergency a Kabul rendeva noto che sono in aumento i pazienti che arrivano all’ospedale per ferite connesse al conflitto. L’ospedale, che l’anno scorso ha curato 3mila pazienti, dice che le sue statistiche non mentono. La guerra è tutt’altro che un addio. Su un altro fronte, nella provincia di Baghdis, un gruppo di guerriglieri in turbante fedeli a mullah Rassul – il comandante che si è staccato dal movimento talebano guidato da mullah Mansur dopo la morte di mullah Omar – ha dichiarato guerra al nuovo capo talebano ritenuto l’usurpatore del trono che fu del fondatore del movimento. A detta dell’ennesima fazione, Mansur non solo è colluso con i servizi pachistani ma sta ammazzando i comandanti che non seguono il dettato del nuovo leader della shura di Quetta.

Nel quadro inquietante che non promette nulla di buono, si muove un impacciato «Alto consiglio di pace» che anni fa era stato scelto da Karzai per tentare un tavolo negoziale. Ma pochi i passi avanti. Alcuni mesi fa è stato messo in piedi un Comitato quadrilaterale tra afghani, pachistani, americani e cinesi. Si sono riuniti quattro volte e avevano annunciato l’imminente avvio del tavolo negoziale per marzo. Ma la tovaglia non era stata ancora stesa che mullah Mansur, l’uomo che ha sostituito mullah Omar (e come si vede non senza suscitare polemiche) ha detto «no», reiterando la vecchia posizione della guerriglia in turbante: finché le truppe straniere non avranno lasciato il Paese di negoziare non se ne parla.

Adesso la Quadrilaterale vorrebbe riprovarci. Un piccolo successo lo ha in effetti portato a casa perché l’Hezb e islami di Gulbuddin Hekmatyar (chi ha buona memoria si ricorderà di questo capo mujahedin all’epoca della guerra antisovietica) ha accettato do negoziare col governo. Ma è un successo a metà. Hekmatyar, un soggetto a geometria di alleanze molto variabile, non solo non è molto affidabile ma non rappresenta che se stesso: ossia una fazione minoritaria della guerriglia che controlla zone a macchia di leopardo nel Nord e nell’Est. Già alleato coi talebani, Hekmatyar è solo una parte del tutto e certo non la più importante.

Il quadro della lotta armata è molto frazionato e uno dei timori che circolano a proposito del ritorno forzato di migranti è che proprio questa nuova forza lavoro in cerca dell’occupazione negata in Europa possa diventare facile preda degli arruolatori delle varie bande: dai talebani più o meno doc, alle fazioni che contestano Mansur fino ai reclutatori di Daesh – piccoli ma presenti – o della vecchia Al Qaeda che riunisce un po’ tutti gli spezzoni jihadsiti che negli anni hanno fatto di Pakistan e Afghanistan le case rifugio dei vari movimenti islamisti stranieri, dall’Uzbekistan al Turkestan cinese. La pace per ora è lontana e non basta il riavvicinamento afghano-pachistano che è in realtà sempre a rischio perché nel governo Ghani-Abdullah c’è chi rema contro a un accordo col Pakistan (se non contro la pace). I più restii sono i vecchi signori della guerra che, cooptati nei governi nazionali ripuliti, coi talebani preferiscono combattere. Il peccato originale – averli amnistiati di fatto – si continua a scontare. E rinvia la pace impossibile a uno scenario di guerra infinita, senza via d’uscita.