«Possiamo spegnere il fuoco con la benzina?» chiede Angelina provocatoriamente verso la fine di Kevin, il documentario che racconta l’impegno politico-sociale di una giovane giornalista nel proprio paese, l’Uganda. Elisa Mereghetti e Marco Mensa, i due autori del film autoprodotto che fa parte della rassegna Doc in tour organizzata dalla D.E-R (Documentaristi dell’Emilia-Romagna) e le cui prossime tappe sono il cinema Rosebud a Reggio Emilia (1° aprile) e la sala Truffaut a Modena (9 aprile) per proseguire fino al 12 maggio in diverse località della regione, affermano che il loro focus era proprio sulla «giovane generazione delle donne africane che si impegna in prima persona a costruire nuovi scenari».

 

 

 

 

Di qui la scelta di raccontare la vita di Kevin Doris Ejon, 29 anni, nota per essere tra i pochi reporter che hanno incontrato e intervistato Joseph Kony, il leader delle milizie ribelli della Lord’s Resistance Army, che negli ultimi 25 anni ha seminato la morte nel Nord Uganda.
Dicono i registi: «In un momento in cui guerre, violenze e fanatismi prevalgono su ogni logica e le soluzioni politiche sembrano sempre più inadeguate, abbiamo voluto valorizzare il ruolo delle donne e dell’informazione nella costruzione di un processo di pace». Il film si apre con foto in bianco e nero, scattate dalla stessa Kevin, che danno un’idea di ciò che è accaduto mentre la voce off ci dice in poche parole della guerra civile tra l’esercito nazionale e la milizia ribelle che, iniziata nel lontano 1986, ha ucciso decine di migliaia di persone, spinto alla fuga oltre due milioni, organizzato rapimenti di massa tra bambini e giovani fanciulle rese schiave. Benché quel conflitto sia finito le ferite lasciate alla popolazione creano ancora tanto dolore. Joseph Kony, ricercato dalla Corte penale internazionale, e i suoi seguaci sono scappati, i rapimenti continuano altrove.

 

 

Mereghetti e Mensa seguono con mano (e occhio) delicato i passi di Kevin che oggi vive a Kampala, la capitale, e lavora alla radio indipendente Lira. Sta preparando un reportage sulle donne che a quel tempo erano tra le studentesse rapite al Saint Mary’s College di Aboke, cittadina vicino a dove lei è cresciuta. «Erano 139, molte sono rimaste nella foresta per dieci e più anni, altre sono morte in combattimento o per malattia, altre ancora sono riuscite a scappare» racconta Kevin prima di dare la parola a Betty, una di loro, che presenta così: «Tornata al villaggio, la comunità non l’ha ancora accettata. Vive sola, con un bimbo piccolo, quando troverà pace?».

 

 

Questa domanda, sottotitolo del film – La mia gente troverà mai la pace? – è il leitmotiv che guida la ricerca di Kevin. A cui fanno da contrappunto le immagini della natura, a volte silenti, a volte sottolineate solo dai suoni dell’ambiente, che via via si fanno metafore delle emozioni, del vissuto, del cortocircuito tra corpo e parola, tra ragionare e sentire.
Nelle due interviste principali ad esempio, con le già citate Betty e con Angelina, la mamma anziana di una delle rapite, si percepisce grazie a piccoli movimenti della mano, messi in primo piano nel montaggio, il disagio, quell’urlo dolente che giace lì, sulla pelle, accarezzata dolcemente, e che rimane muto perché, anche se fosse gridato ad alta voce, non verrebbe ascoltato. Quel tipo di violenza che non sopporta nessuna immagine ci arriva dritto come un pugno proprio da quelle dita che sfiorano il braccio, da due mani che cercano ripetutamente di lavare un capo bianco in una vaschetta d’acqua o dai lampi che si scatenano in un cielo oscuro quasi accecandoci nel loro apparire.

 

 

Che fare per portare sollievo? «L’unica possibilità è capire che siamo tutti vittime e che insieme possiamo risolvere qualcosa» commenta Kevin. E la proposta più radicale arriva da una delle vittime, Angelina: «Ci vorrebbe una commissione nazionale per la verità e la riconciliazione per compiere un processo che coinvolge tutti. Siamo essere umani e la storia dell’Uganda è chiara, abbiamo vissuto rivolte, distruzioni, omicidi, mutilazioni. In Sudafrica ci sono riusciti. Il conflitto è vecchio come l’umanità, il processo di perdono e riconciliazione dovrebbe essere costante, quotidiano».