La Cop21, la Conferenza dell’Onu che si apre il 30 novembre a Parigi, mette attorno a un tavolo 196 paesi per trovare un’intesa sulla lotta al cambiamento climatico. Se non saranno accettate delle soluzioni, difficili economicamente, per mantenere il riscaldamento al di sotto di due gradi entro la fine del secolo, una delle conseguenze – l’innalzamento del livello dei mari – causerà la scomparsa di città e di intere civiltà. Tra le zone a grande rischio c’è la regione del nord della Papuasia-Nuova Guinea. Ed è proprio all’arte nata lungo il fiume Sepik il Musée du Quai Branly di Parigi dedica, fino al 31 gennaio, un’importante mostra, la prima in Francia. Attraverso 230 sculture e oggetti, provenienti da 18 musei europei, il percorso invita a un viaggio lungo questa valle del nord della Nuova Guinea: qui, la presenza umana risale al I millennio della nostra era.

Sul Sepik e le sue popolazioni hanno scritto anche gli antropologi Margaret Mead e Gregory Bateson, inoltre i manufatti di questa regione avevano affascinato non poco i Surrealisti. Il Sepik è il più lungo corso d’acqua della Papuasia-Nuova Guinea, 1126 chilometri, che disegnano un’ansa anche nella vicina Indonesia, un fiume pieno di meandri e bracci morti, un ecosistema di «bellezza irresistibile» per lo storico dell’arte Douglas Newton, uno dei più bei luoghi al mondo per Bateson, fatto di foreste tropicali, montagne, mangrovie, zone umide. Nella stagione delle piogge, la valle è invasa dalle inondazioni e si trasforma in una vasta palude. Il Sepik nasce a Telefomin, negli altipiani centrali, poi dopo aver attraversato le montagne di Yapsei e un passaggio in Indonesia, si getta bruscamente nel mare di Bismarck.
La mostra, che presenta i risultati di trentacinque anni di ricerche degli studiosi Philippe Peltier, Markus Schindlbeck e Christian Kaumann, evoca lo spazio di vita tradizionale di queste popolazioni, che parlano una novantina di lingue (alcune con pochissimi locutori) appartenenti a trentotto ceppi linguistici diversi, ma dove oggi domina un pidgin nato nelle piantagioni alla fine del XIX secolo-inizio XX.

Le opere esposte al Quai Branly sono straordinarie. Si entra nel mondo del Sepik con due immense piroghe a forma di coccodrillo, l’animale sacro per eccellenza, la cui pelle viene riprodotta con dolore sul corpo dei giovani, nei riti di iniziazione. Il villaggio è estremamente gerarchizzato: il primo spazio è quello della casa delle donne, poi c’è la dimora degli uomini e, infine, lo spazio degli iniziati, un percorso che conduce alla principale figura tutelare di tutte le culture del Sepik, gli antenati fondatori.

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La casa delle donne è quella dell’attività, dove ci si dedica alla produzione di oggetti anche per il commercio: tutti vi possono entrare. Il villaggio è organizzato in quartieri, abitanti ognuno da un «clan», sottoposto all’autorità del «bigman», il vecchio saggio che conosce i miti originari. Le opere più spettacolari sono dei grandi crochet, «ganci» a figura umana o animale, come fossero dei rastrelli rovesciati, usati sia per agganciare i prodotti alimentari (e tenerli lontani dagli animali) e preziosi che per infilarvi crani umani – possono essere sia quelli dei nemici che degli antenati. A Parigi, a differenza di Berlino e Zurigo, dove la mostra è già stata presentata, questi crani umani vengono esposti.

La casa degli uomini è al centro del villaggio, riservata al sesso maschile, si tratta di edifici che possono raggiungere i quindici metri altezza e i quaranta di lunghezza, dove ogni spazio è scolpito, una metafora del corpo dell’antenato primordiale. Oggi ne sopravvivono ottantasette, stando a un censimento del 2008. Qui i crochet possono prendere forme sorprendenti, come quella di un’enorme figura femminile con le gambe aperte e il sesso bene in vista, il corpo scarificato, incarnazione della madre primordiale.

Luogo dell’iniziazione dei giovani, rituale lungo e violento, la casa degli uomini è anche una specie di parlamento locale dove vengono regolate le questioni della comunità (oggi sono luoghi di attrazione turistica, con un mercato di oggetti). L’arte del Sepik è considerata tra le più feconde del pacifico. Si tratta di una produzione rituale, magica, fatta di maschere, scudi dipinti, flauti e tamburi, piroghe cesellate. I reperti sono in genere in legno, ma vengono usati anche altri materiali che la natura può offrire, come piume, conchiglie, denti, capelli. Nel percorso della rassegna, ci sono crani ricoperti da un misto di calce, fango, argilla, linfa, una superficie poi dipinta. Queste teste erano poi infilzate nei ganci dei crochet, per evocare gli spiriti degli antenati ma anche dei nemici sconfitti. I suoni degli strumenti musicali scolpiti, flauti, tamburi lunghi molti metri, anche ad acqua, servivano invece per ascoltare la voce degli antenati.

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Gli occidentali hanno scoperto questo territorio solo alla fine del XIX secolo, grazie al capitano Eduard Dallman e al naturalista Otto Finsch, che risalirono il Sepik – allora battezzato Kaiserin Augusta – nel 1886, l’anno seguente la conquista tedesca della Nuova Guinea. Seguiranno altre spedizioni tra il 1909 e il 1913, ed è grazie ad esse se i musei tedeschi conservano un’importante collezione di arte Sepik.

Dopo la prima guerra mondiale, la regione passò sotto il controllo australiano. Durante la seconda guerra, sbarcano i giapponesi, ma nel 1944 tornarono gli australiani (con un massacro degli abitanti sospettati di aver collaborato con i giapponesi). La Papuasia-Nuova Guinea oggi fa parte del Commonwealth ed è indipendente dal ’75. Oltre alla minaccia del riscaldamento climatico, la zona è a rischio per l’interesse delle multinazionali dopo la scoperta di giacimenti di gas naturale. Ma, per il momento, resta una delle regioni più preservate della terra.