Se si ha presente il quadro politico europeo nel suo complesso, non sorprenderà più di tanto la decisione del Partido Socialista Obrero Español (Psoe) di astenersi nel dibattito sulla fiducia alle Cortes, concluso con l’investitura di un governo guidato ancora una volta dal Partido Popular di Mariano Rajoy. Anche se formalmente ministri socialisti non entreranno in nessun dicastero, sarà difficile per il Psoe smarcarsi dalle politiche di taglio conservatore che verosimilmente caratterizzeranno il prossimo esecutivo. Una grande coalizione di fatto. La socialdemocrazia spagnola si appresta perciò a imboccare lo stesso angusto percorso che ha portato alla pratica dissoluzione del socialismo greco (in Spagna è stato in proposito coniato un neologismo: pasokizacion), alla subordinazione della Spd alle politiche austeritarie del duo Merkel/Schauble e alla “non vittoria”, da noi, dell’alleanza Italia bene comune, che pagò duramente l’appoggio dato dal suo principale azionista alla grande coalizione di Mario Monti.

Del resto le forze del socialismo europeo non hanno dato miglior prova di sé, in termini di autonomia politica e programmatica dal neoliberismo, quando sono giunte al governo sulla scia di un voto alternativo ai partiti conservatori: si pensi non solo al laburismo blairiano o alla presidenza Hollande in Francia, ma anche ai governi ulivisti in Italia o alla stessa esperienza di Zapatero in Spagna.

Il presentarsi come alternativa elettorale non costituisce di per sé una garanzia dai rischi di trasformismo, che anzi nel bipartitismo può trovare un suo dispiegamento sublimato, in assenza di chiare alternative programmatiche e di netti riferimenti nelle pratiche del conflitto sociale.

Quando il socialismo europeo è arrivato al governo in base al meccanismo dell’alternanza, così come nel caso in cui vi sia acceduto in via subordinata accettando la coabitazione con i partiti conservatori, le ragioni addotte per la propria condotta moderata sono sempre le stesse: il «senso di responsabilità», la necessità di presentarsi come una forza «credibile» per «governare il cambiamento», la «difesa delle istituzioni» contro il «populismo».

Si è diffusa, tra i partiti che almeno nominalmente si richiamano al movimento operaio, una visione funzionalista del proprio ruolo nello scenario politico: i partiti come organizzazioni deputate appunto a «far funzionare» la democrazia; come agenzie destinate a fornire il personale per la governance neoliberale e per i suoi molteplici livelli di amministrazione. Il caso del Psoe si presenta come paradigmatico: il socialista è stato il partito che più di ogni altro ha contribuito a traghettare la democrazia iberica all’interno degli schemi della governance neoliberale, con l’adesione dei governi Gonzalez alla Nato e a Maastricht, con l’espressione di un segretario generale dell’Alleanza atlantica e di altissimi esponenti della tecnocrazia europea.

Ma la democrazia non è un meccanismo automatico, inceppato solo saltuariamente da incidenti di percorso (i «totalitarismi»). Lo Stato liberale ottocentesco nacque dappertutto come sistema oligarchico, cassa di compensazione degli interessi delle classi dominanti; i partiti come portatori degli interessi autonomi dei gruppi subalterni furono mal visti, in quanto costituivano potenziali ostacoli sulla via della rappresentanza dell’interesse generale della nazione (cioè delle classi dominanti). Il matrimonio tra liberalismo e democrazia si è prodotto con l’irruzione sulla scena del movimento operaio – del cartismo inglese, della socialdemocrazia tedesca, del socialismo italiano – che ha costretto anche i gruppi dirigenti tradizionali, assai a loro agio in sistemi oligarchici, ad accettare la sfida della rappresentanza pluralistica degli interessi contrapposti. In assenza di questa spinta dal basso, o in presenza di una sua sconfitta, l’opzione oligarchica o addirittura anti-democratica è sempre presente nell’agenda delle élites, mentre il movimento operaio ha contribuito a migliorare la qualità della democrazia e al rafforzamento delle istituzioni pluralistiche proprio quando si è posto l’obiettivo di disequilibrare gli assetti dominanti, facendo camminare questo processo sulle gambe di un solido ancoraggio al conflitto sociale. Ancora una volta, la storia spagnola si inserisce a pieno in questo quadro dinamico: la vitalità democratica della II Repubblica e poi della Transizione non si spiegano con un improvviso afflato liberale delle oligarchie tradizionali, ma con il protagonismo assunto dai movimenti popolari e con la capacità di tradurlo in pratiche democratiche da parte delle sinistre.

I partiti eredi del movimento operaio, o quanto meno le loro ali maggioritarie, hanno scordato questa lezione, contribuendo, con il loro sganciamento dalla rappresentanza e dalla pratica del conflitto, la loro burocratizzazione e la conseguente concezione funzionalista del proprio ruolo, a rendere sterile la democrazia.

Sarebbe tuttavia semplicistico, oltre che politicamente improduttivo, limitarsi a gridare al tradimento, o crogiolarsi nell’illusione che la resa del socialismo europeo alle ragioni della restaurazione apra spazi politici destinati automaticamente ad essere riempiti dalle forze della «vera sinistra». Perché il rischio, ormai sotto gli occhi di tutti, è quello di una chiusura oligarchica dei sistemi politici continentali, a prescindere dalle fortune elettorali della socialdemocrazia.

La vera sfida per le forze di alternativa, in Spagna come nel resto del Continente, consiste nel ricostruire il legame sfilacciato tra democrazia e conflitto: una sovrapposizione tra la deriva oligarchica della prima e una mancanza di sbocchi politici adeguati per il secondo avrebbe esiti alquanto pericolosi.