A quasi 93 anni e con una carriera consolidata nella sfera delle avanguardie novopoetiche, Mirella Bentivoglio non smette di sorprendere il suo pubblico affidando alle stampe della casa editrice De Luca un volume di scritti inediti, composto di prose e di una sola poesia, dal titolo La guerra in piccolo. Si tratta di brevi vicende ambientate nel periodo del secondo conflitto mondiale. Aneddoti osservati dalla prospettiva dei civili, tutti basati su episodi reali, anche nella loro beffarda «surrealtà»; superstiti ingialliti nel vaglio dei documenti dell’archivio personale dell’artista, restituiti dalla penna dell’allora acerba e giovane scrittrice.

Classe 1922, proveniente dalla letteratura, Mirella Bentivoglio – che la letteratura ha presto abbandonato trasformando la propria esigenza comunicativa in qualcosa di diverso, recuperando il valore iconico della parola e del linguaggio (mediante Poesia Concreta, Poesia Visiva, intervento sul territorio, di matrice simbolica) – ha saputo, a dispetto dello scarto espressivo, e con la lucidità autocritica del suo operato, rimettersi in gioco sui passi dei propri esordi scrittorii. Una scelta coraggiosa, di tutto rispetto. E ancora più coraggiosa se si considera quanto questo rappresenti, sul piano esistenziale, una immersione in ricordi vividi, riaffiorati nella memoria di una così lucida ritrattista della parola; un ritorno senza soste intermedie, come vera e propria impennata temporale nell’epoca difficile appartenuta alla propria giovinezza. Per un’alchimista dell’arte contemporanea, che adotta spesso l’uovo come inconscio simbolo dell’origine, anche questa operazione attuale sembra la conferma della necessità di un ciclico ritorno.

La guerra in piccolo vista, sentita, respirata da vicino, attraverso il dialogo tra i genitori, gli occasionali compagni di viaggio, la conoscenza degli ebrei nascosti tra le montagne; costituirebbe un risultato creativo originale anche qualora fosse stato scritto oggi, supportato da una distanza storica che ha consolidato il filone affidato alle memorie della guerra, dalla fortuna critica del neorealismo, da quella ricerca estetica, narrativa, cinematografica, televisiva di un’umanità veritiera e d’insegnamento sottesa nelle catastrofi della distruzione bellica. Ma la capacità di restituire in piccoli frammenti di esperienza vissuta le immagini, la caratterizzazione di personaggi dagli animi diversi nella maniera di reagire al dolore, alla mutilazione; nell’offrirsi solidali, nel far resistere il desiderio della vita e del piacere anche sotto la minaccia della morte, appartengono, come autentica asserzione, proprio alla visione contemporanea di quegli anni, tra il 1939 e il ’45. L’unico ricordo recente (2010) da Mirella Bentivoglio inserito nella raccolta, è un omaggio alla memoria del padre, che tuttavia si accorda nel respiro e nelle tematiche agli altri lontani episodi del volumetto.

E forse è proprio per la dimensione così «umana» delle testimonianze trattate, che della guerra ci viene offerta la straniante immagine di assurdità. Non a caso, ad apertura della raccolta, l’unica lirica che Mirella Bentivoglio abbia dedicato a questo tema è sottotitolata «a Magritte». Il finale sdrucciolo pone l’accento sulla duplicità del verbo «passare»: non sono più le ore, «convenzione antica del tempo», a trascorrere nel cerchio vuoto dell’orologio della stazione, ormai bombardato; bensì sono le nuvole ora a «passare», dove l’apertura nello spazio vacuo della sconcertante crudeltà distruttiva rivela qualcosa di «concreto», a differenza dell’astratta misurazione. Anche questa scoperta ha contribuito per l’autrice alla messa in discussione del linguaggio, del modo stesso di fare poesia. Così Mirella Bentivoglio non ci mostra solo la scrittrice che era nella preistoria della sua arte; ma anche quella stessa trasformazione che la sua arte ha reso possibile.