Sebbene la proposta editoriale degli ultimi anni abbia abbondato in titoli, alcuni dei quali francamente preziosi, la percezione della letteratura ispanoamericana sembra a volte mancare di profondità temporale: il vasto territorio che precede il «boom» degli anni sessanta rimane ancora inesplorato, e in particolare la prima metà del Novecento nasconde tesori che meriterebbero un attento lavoro di scavo. Da quell’epoca distante emerge uno scrittore ineludibile, considerato niente meno che il fondatore del racconto moderno in lingua spagnola, il rioplatense Horacio Quiroga, di cui Einaudi pubblica ora una selezione dei racconti, Tigre per sempre, introdotta in modo eccellente da Ernesto Franco e pregevolmente tradotta da Jaime Riera Rehren (pp. XVII – 350, euro 24,00).

Quiroga è considerato un «classico» in America Latina, ma anche da noi furono pubblicate, ormai negli anni ottanta, due ampie raccolte, curate da Dario Puccini, e alcuni suoi Racconti della selva vennero considerati così indispensabili da finire in una collana di letture per le scuole: quella fioritura non lasciò però frutti duraturi, e questa nuova traduzione è una imperdibile occasione per avvicinarsi a un autore che riserva davvero molte sorprese.

Horacio Quiroga nacque e si formò in Uruguay, per poi trasferirsi in Argentina dove passò il resto della sua vita, e dove consolidò la sua traiettoria letteraria con libri memorabili, tra i quali Cuentos de amor locura y muerte (del 1917); Los desterrados (del 1926), tutti ben rappresentati nel volume einaudiano. Nel volgere di una quindicina d’anni Quiroga riuscì a costruire un universo narrativo di straordinaria ampiezza e complessità, composto da quasi duecento racconti, dove sperimenta un’enorme varietà di temi e di tecniche narrative: il realismo di quelli ambientati nella regione di Misiones, l’analisi delle passioni umane nelle storie d’amore e di follia, e il genere fantastico unito all’attrazione per il cinema della sua ultima stagione creativa.

La vicenda umana di Quiroga fu segnata da una reiterata serie di suicidi, morti improvvise, fatalità inspiegabili, imprese fallite che si intrecciarono inesorabilmente con la sua attività di scrittore; eppure l’origine dei suoi temi ricorrenti non va tanto cercata nel percorso biografico quanto in una sempre rinnovata ricerca letteraria. Il lettore può misurare la sua precisa coscienza autoriale in quel Decálogo del perfecto cuentista che Ernesto Franco commenta, nella sua prefazione, in forma di avvincente contrappunto: ecco allora emergere gli autori di riferimento – Poe, Kipling, Maupassant – ma anche la ricerca di una «verità narrativa» del tutto nuova, che sfocerà nell’attenta lettura di Kafka e dei narratori nordamericani suoi contemporanei.

In questo panorama sono state proposte molte catalogazioni per i racconti di Quiroga ma in realtà la sua ricerca punta verso il superamento di qualsiasi rigidità classificatoria e la sua produzione maggiore si muove tra due poli strettamente connessi, quello dell’attrazione per passioni e situazioni radicali, e quello della esplorazione della frontiera, intesa non solo in senso geografico. Il primo polo si materializza, in particolare, nella raccolta del 1917, Cuentos de amor locura y muerte, dove i tre elementi, volutamente non separati da una virgola, producono «racconti del sonno della ragione», come scrisse Ángel Rama, in cui la precisione della scrittura e la razionalità della narrazione contrastano con la violenza delle situazioni, che quasi sempre sfociano nella morte.

Un tema, quello della morte, talmente presente nell’opera di Quiroga da costituire il vero collegamento tra i due poli degli interessi che precipitano nella sua narrativa, eppure lo scrittore riesce anche qui a mantenere uno straniato distacco, e i suoi personaggi vivono un alienante sdoppiamento: è quanto accade, per esempio, in «Deserto», dove il protagonista si «vede morire», in una allucinata alternanza di visione soggettiva e oggettiva. Quiroga si concentra allora proprio su quel passaggio, sull’indefinibile frontiera tra la vita e la morte, da lui tante volte sfiorata.

L’attrazione per la frontiera disegna anche una relazione del tutto nuova con lo spazio, ed è da qui che ha origine la fama di Quiroga «scrittore della selva», come se lo scenario in cui ambienta molti dei propri testi sovrastasse ogni altro aspetto della sua scrittura. In realtà, il suo rapporto con lo spazio è ambivalente: la regione di Misiones viene ricreata a partire da una raffinata rielaborazione in cui l’esperienza vissuta si sovraccarica di altri e più estesi significati. È così che un territorio fino ad allora dimenticato viene annesso alla scrittura letteraria, senza alcuna concessione al folklore o all’esotismo, ma anzi rivendicando per quegli spazi un’inedita profondità.

Su quel confine geografico Quiroga esplora infatti altre frontiere, per esempio quella tra uomini e animali: dei molti racconti in cui questi sono protagonisti, i più famosi sono i racconti che vedono al centro Anaconda, il gigantesco serpente le cui avventure – in perenne conflitto con l’uomo – vengono narrate dal punto di vista dello stesso Anaconda. Tuttavia, non c’è in Quiroga nulla che lo avvicini alle favole di Esopo, e anche l’amato modello di Kipling sembra, tra le sue pagine, ormai superato: mentre infatti il serpente assume i caratteri umani della parola, della intelligenza, del senso dell’amicizia, dell’odio verso i prepotenti, del coraggio, rimane tuttavia uno dei più temuti abitanti della selva. Anaconda si mostra alla fine superiore ai suoi nemici umani e solo la contaminazione tra le specie permetterà all’uomo di integrarsi in un abbraccio panico con la natura.

Nel «Ritorno di Anaconda» il racconto verte sull’incontro tra il serpente e un moribondo, ambientato su un isolotto galleggiante alla deriva sul fiume in piena. Di fronte a quell’essere silenzioso, Anaconda si ferma interdetto e quando alla fine l’uomo muore, e fallisce anche il progetto del serpente di bloccare il Paranà con degli isolotti galleggianti, in un’ultima lotta contro il destino avverso il boa depone le sue uova nel corpo dell’uomo ormai senza vita. Uomo e animale si incontrano così nel momento estremo nella comune appartenenza a una natura governata da leggi che sfuggono a entrambi. La morte arriverà anche qui, imprevedibile e crudele: Anaconda viene colpito quasi per caso da una fucilata sparata da lontano, ma consegna alla selva una fragile promessa di vita, una promessa contenuta nelle uova che ha deposto e che stanno andando alla deriva, simbolo di una ostinata e inspiegabile resistenza.

In quello spazio di frontiera Quiroga ambienta gran parte dei racconti della sua raccolta più famosa, Los desterrados: personaggi finiti in quell’angolo del mondo a concludere vite segnate dalla sconfitta, dalla malattia, da tragedie di cui non emergono che brevi accenni, gli emigrati protagonisti del racconto non sembrano governati da altra logica se non quella della pura casualità: «Come ogni regione di frontiera, Misiones è ricca di personaggi pittoreschi. Lo sono in modo particolare quelli che, come le palle da biliardo, sono nati con l’effetto. Toccano normalmente la sponda, e poi schizzano nelle direzioni più inaspettate».

Sono uomini che hanno provato a sfruttare la regione, ma quei tentativi li hanno condotti solo a sconfitte definitive: molti di loro sono ex-chimici, ex-ingegneri, ex-scienziati, che laggiù hanno del tutto perduto il senso delle loro conoscenze, per trasformarsi alla fine in ex-uomini. Il conflitto che Quiroga mette a fuoco è, allora, quello che oppone la modernità, e con essa la scienza che sempre lo aveva affascinato, al potere della natura, percepita come l’antagonista radicale. Il grande fiume si trasforma così nel simbolo centrale: non più solo confine tra nazioni, ma frontiera che divide il passato dei personaggi, urbano e rispettabile, da un presente caotico e senza senso che li ha trascinati in bilico tra la vita e la morte.

Al contrario di quanto accade nei racconti in cui prevale la dimensione della follia, della malattia, dei più svariati tipi di ossessione, qui i personaggi conservano fino alla fine una loro personale lucidità: tra questi, Juan Brown, di cui si narra la vita in «Magione-Tacuara», che – abbandonati gli studi di ingegneria – si installa nella regione «semplicemente perché per lui non valeva la pena di fare altro».

Ed ecco risalire alla superficie un altro punto nodale; quei personaggi sono finiti laggiù, alla deriva, e lì si sono definitivamente lasciati andare, non per desiderio di fuga dal mondo, o mossi da una orgogliosa autoemarginazione, ma perché quella è l’ultima tappa dei loro percorsi immancabilmente segnati da destini oscuri, che terminano con una morte giocata in una lotta impari con le forze naturali: si muore affogati nel fiume, uccisi mentre si tagliano i banani, o sotto un albero enorme, consumati da un alcool letale. Queste morti apparentemente inscritte fin dall’inizio nel destino dei personaggi sembrano tuttavia funzionare anche come una sorta di esorcismo, che Quiroga scatena contro le proprie personali ossessioni, dalle quali non riuscirà mai a liberarsi del tutto.

La seconda parte dell’antologia propone testi in gran parte inediti in italiano, meno conosciuti ma non meno affascinanti, tra i quali merita un’attenzione speciale «Il vampiro», racconto in cui lo scrittore rioplatense mostra la sua personale passione per il cinema, che qui associa al tema del vampirismo, tipico della narrativa fantastica.

Tra queste pagine, uno strano scienziato fa sì che un’attrice bellissima venga fatta uscire magicamente dallo schermo, con conseguenze imprevedibili: è l’inaugurazione, da parte di Quiroga, di una linea narrativa che nel Novecento molti avrebbero poi seito, da Bioy Casares a Woody Allen, mostrando come la fedeltà alle sue personali frontiere lo avesse condotto, alla fin fine, a intravederne altre, ben più inquietanti e contemporanee.