Nel raffigurare il grattacielo capitalista Horkheimer vi pone a fondamento «l’indescrivibile, inimmaginabile sofferenza degli animali, l’inferno animale nella società umana, il sudore, il sangue, la disperazione degli animali» (Crepuscolo. Appunti presi in Germania, Einaudi, 1977, pp. 70). È chiaro tuttavia che non si tratta di un portato esclusivamente capitalista. La paura dell’animale che noi stessi siamo è antica e profonda. È anche comprensibile perché fondata sul bisogno di marcare un territorio, di riconoscere un’identità di branco, di imporre una gerarchia. Proprio mentre fa di tutto per allontanarsi dalla «bestia» che è, l’Homo sapiens mostra l’animale che rimane.
Con gli strumenti che gli sono propri, questo animale si è inventato una vera e propria attrezzatura concettuale e operativa allo scopo di difendersi da se stesso. Sta qui la radice del paradigma umanistico, i cui più noti esempi sono l’assunzione dell’umano a misura di tutte le cose, l’apoteosi di Pico della Mirandola nel De hominis dignitate, l’icona vitruviana scolpita da Leonardo nel disegno che rappresenta un uomo posto al centro del cosmo. Per descrivere queste e altre manifestazioni dell’umanismo giunto al suo culmine, Richard Ryder coniò nel 1970 il termine specismo, in evidente analogia con quelli di razzismo e sessismo. Intento equivoco nel suo uniformare gli altri animali alle discriminazioni presenti nella nostra specie, ma termine utile a definire il paradigma umanistico. Paradigma che mostra sempre più le proprie debolezze, insufficienze, errori, contraddizioni, rompicapo irrisolti.
Uno degli obiettivi di tutta la riflessione di Roberto Marchesini, e della sua più recente opera in particolare, è esattamente la critica allo specismo. Una critica intesa e praticata come segnale, cesura, faglia, frattura dentro il paradigma umanistico e a favore di un nuovo e più corretto paradigma antropologico e scientifico. Lo scopo è individuare le radici speciste dell’umanismo e quelle umanistiche dello specismo, il quale riguarda assai più la visione che l’homo sapiens ha di se stesso piuttosto che il suo giudizio sugli altri animali.
L’umanismo si basa infatti su alcuni principi tra i quali è fondamentale «l’idea di uomo come fine e come significato, con svuotamento di tutti gli altri enti» (Contro i diritti degli animali? Proposta per un antispecismo postumanista, Sonda, pp. 188,euro 18).
Nascendo dal timore, l’umanismo è anzitutto una recisa negazione dell’animalità in quanto tale. Anzitutto della propria animalità e solo successivamente di quella altrui. L’umanista, infatti, riduce il suo essere animale alla mera corporeità e l’animalità del non umano al semplice meccanismo dei suoi organi. In tal modo l’umanismo opera incessantemente a favore della distanziazione dell’umano dagli altri animali e della omologazione dell’animalità in una uniformità che costituisce un errore anche logico. L’animale, infatti, non esiste.
Con questa categorizzazione viene ignorata la vera differenza, che non è quella dell’umano rispetto all’animale ma degli animali – umani compresi – tra di loro. È infatti «evidente che la nostra specie sia diversa da tutte le altre, ma lo stesso può dirsi per lo scimpanzé, l’elefante e il colibrì».
Ne conseguono alcuni atteggiamenti che si illudono di essere rispettosi della differenza e invece sono del tutto interni al paradigma umanistico. Non ha senso, ad esempio, chiedersi quale sia «l’animale più intelligente» poiché si tratta di una domanda che evidentemente pone come criterio gerarchico una ben precisa intelligenza, quella umana. Oltrepassare davvero lo specismo implica il superamento del concetto stesso di «centralità» e di «primato» attribuito a un qualunque ente nel mondo.
Specismo è anche esser convinti che una «natura umana» non esista e che l’homo sapiens sia un’entità storica e volontaristica. Ma «considerare l’essere umano come frutto esclusivamente delle contingenze sociali e storiche è avvalorare l’idea umanistica del manifesto pichiano. Allorché si nega una natura umana o la si riduce a tal punto da renderla di fatto insussistente, si opta per uno specismo conclamato».
Un antispecismo consapevole rifiuta qualunque forma di naturalismo romantico e utilizza piuttosto tutti gli strumenti, anche scientifici, in grado di raggiungere l’obiettivo di «vedere nell’animale un compagno di relazione e non una macchina da sfruttare». Un itinerario al cui fondamento stanno i principi postumanisti che mettono in discussione sia l’esclusività ontologica dell’uomo che la pretesa di assumere le caratteristiche dell’uomo come termine di confronto.
Bisogna oltrepassare qualunque separazione gerarchica tra l’umano e gli altri animali poiché «l’animale che siamo e non siamo è più certo del nostro cogito, galoppa nei sentieri della vita e sa trovare le sue fonti di felicità, è un corpo che dionisiacamente si esprime, una volontà nell’impotenza che sfida le leggi della termodinamica e trasforma le risorse in dotazioni, le leggi in spazi di libertà, il tempo in un universo interno da riempire di infinito».