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Dalla guerra fredda in avanti l’immaginario postatomico ha occupato uno spazio rilevante nella letteratura, nei fumetti e nelle serie televisive. Nello stesso tempo, l’accusa di detenere armi di distruzione di massa ha continuato a fornire il pretesto alla politica per stilare liste di nemici e dichiarare guerre preventive. Il libro di Leonardo Campus (I sei giorni che sconvolsero il mondo, Le Monnier) affronta la lunga durata della «paura della bomba» a partire dalla crisi dei missili di Cuba del 1962; uno spartiacque per gli Stati Uniti, ma anche per le conseguenze sullo scenario italiano.

Il volume si snoda attorno alla domanda su quali pensieri e quali emozioni possa aver provocato la convinzione di «vivere sull’orlo di una guerra termonucleare». Le risposte vengono cercate nei nastri delle riunioni d’emergenza alla Casa Bianca, nella stampa internazionale, nelle testimonianze di attori, scienziati e privati cittadini. Ne emerge un insieme sfaccettato, al cui interno anche la società italiana trova una collocazione. I fatti salienti sono noti. L’istallazione dei missili sovietici, pensata in reazione alla Baia dei Porci, viene scoperta nell’ottobre 1962. Dopo tredici giorni di alta tensione, la soluzione della crisi arriva dal rifiuto del leader del Cremlino di forzare il blocco navale americano intorno all’isola; una decisione accolta dai media occidentali come una vittoria. Non è stata resa pubblica invece la trattativa che ha portato Kennedy ad accettare la disinstallazione delle basi missilistiche in Turchia e in Italia.
Anche se l’opinione pubblica non ha la percezione del pericolo, l’Italia è stata classificata come uno degli obiettivi a rischio di rappresaglia sovietica: i 30 missili Jupiter a raggio intermedio sparsi nell’altopiano delle Murge la rendono un bersaglio adatto. Le pagine dedicate al ruolo giocato in questa fase da Andreotti e Fanfani sono ricche di informazioni nuove che mostrano lo sforzo della politica italiana nella ricerca di una soluzione alla crisi internazionale con il coinvolgimento delle Nazioni Unite.

Nella società civile la crisi porta nelle piazze un movimento per la pace ancora debole, ma in espansione anche nel mondo cattolico e dalle molteplici anime. Per i settori religiosi, in particolare, la questione di fondo sollevata da Giovanni XXIII e dal trappista americano Thomas Merton riguarda la possibilità concreta che l’umanità possa non sopravvivere a un conflitto nucleare e quindi la necessità di sviluppare una cultura della pace che oggi definiremmo «senza se e senza ma». Ecco allora che, anche se l’Italia non ha vissuto fenomeni quali l’assalto ai supermercati e i rifugi antiatomici in giardino, la ricostruzione di Campus restituisce l’immagine di una grande paura di tipo nuovo. Ne forniscono testimonianze preziose il Cinegiornale della pace, ideato da Cesare Zavattini, una rivista letteraria come «Il Verri», che dedica alla crisi un numero monografico, i testi e le uscite pubbliche di intellettuali quali Eco, Moravia, Pasolini e Capitini.

Anche in Italia la rappresentazione dell’Olocausto atomico in un film cult come Il Dottor Stranamore e i discorsi sulla bomba degli artisti, degli scienziati e delle autorità religiose hanno funzionato come una forma di esorcismo della paura. In questo panorama la crisi cubana è stata un passaggio centrale nella maturazione di un mainstream globalizzato in un teatro di guerra divenuto potenzialmente totale. In palio c’è la sopravvivenza dell’umanità, la sfida più alta, ma anche la più difficile da spiegare e inquadrare nelle categorie ideologiche e negli schemi politici a disposizione; ideologie che proprio allora iniziano a modificarsi in maniera decisiva per gli sviluppi di una nuova cultura della pace.