Sul tortuoso iter del disegno di legge in discussione al Senato, il cui testo definitivo dovrebbe essere approvato a giorni, che introduce la fattispecie penale del reato di negazionismo, è bene fare alcune considerazioni di merito e di metodo.

La prima di esse è che tale percorso legislativo dovrebbe rispondere alla decisione, adottata dagli organismi dell’Unione Europea già nel 2008, di introdurre la negazione dello sterminio degli ebrei europei, così come di altri crimini internazionali di natura genocida, già definiti come tali dai processi di Norimberga e poi recepiti nello Statuto della Corte penale internazionale, tra le forme di razzismo da perseguire penalmente.
Ciò tanto più dal momento in cui la negazione rinvii esplicitamente e consapevolmente alla volontà di incitare all’odio, diffamare le vittime, cancellare le violenze trascorse per legittimare quelle potenzialmente in divenire.

Gli Stati membri dell’Unione dovrebbero quindi adeguare la loro legislazione nazionale a tale deliberazione. Dopo di che la preoccupazione da tempo sopravvenuta è che si ingeneri una sorta di eterogenesi dei risultati.
Tra i rischi potenziali c’è quello di offrire a soggetti che praticano la menzogna come provocazione quotidiana un’impropria tribuna, dalla quale presentarsi come martiri della «libertà di opinione».
A poco vale l’obiezione di merito che di opinioni non si tratti. Ciò che troppo spesso entra in gioco, quando si parla di negazionismo, infatti, non è l’indiscutibile diffamatorietà di certe affermazioni ma l’erronea percezione pubblica che esse, ancorché sgradevoli, debbano comunque avere diritto di espressione.

Quel che sfugge a tale logica di senso comune è che gli antisemiti si presentano sempre con lo stigma della vittima, ribaltando i ruoli e presentandosi come «martiri» di un’idea. Tanto più meritevole di attenzione perché avversata dalle istituzioni. La ribalta pubblica di un processo, quindi, offrirebbe loro insperata visibilità.

E i processi, soprattutto sul merito di ciò che sia opinione, ancorché ripugnante, oppure lesione intenzionale e razzista dei diritti di memoria e riconoscimento, potrebbero spostare pesantemente l’attenzione dal contenuto delle menzogne alla figura degli imputati.

I quali, se ne può stare pressoché certi, saprebbero rivestire le casacche degli ingiustamente proscritti.  Non di meno, il delegare alla magistratura il potere di definire ciò che, essendo stato detto in pubblico, costituisca o meno reato, potrebbe paradossalmente non riuscire nell’intento di contenere un fenomeno, quello negazionista, che si alimenta di continue evoluzioni virali, attraverso il complottismo e il cospirazionismo, la sua ibridazione con teorie e ideologie di falsa coscienza, di pseudoliberazione e così via.

Il negazionismo è non solo il negare l’evidenza di un fatto storico ma il costruirne una sorta di contronarrazione, ad uso e consumo delle circostanze del momento.
Peraltro l’attenzione riservata al giudizio degli storici, da parte dei parlamentari, durante le audizioni succedutesi nel tempo, parrebbe essere stata assai più di forma che non di sostanza, quasi a volere rivelare che l’adempimento alla richiesta formulata dall’Unione risponda essenzialmente alla mera logica di uniformarsi al dettato europeo e non ad un’effettiva azione di contrasto del fenomeno. Lo stesso impianto del testo legislativo rischia di risultare contraddittorio, soprattutto laddove la mediazione politica ha prodotto torsioni di significato.

Si è rilevato che le norme contenutevi rischiano di punire chi nega un genocidio ma non nella stessa misura chi lo esalta. Più in generale, il timore condiviso è che l’evidenza dei fatti venga sancita come verità di Stato.
In una democrazia i giudizi di fatto, e quindi quelli di valore che da essi derivano, non sono oggetto di curatela di una qualche pubblica amministrazione. Altrimenti il rischio è di sgretolarne la loro credibilità nel momento stesso in cui si dice di volerne tutelare il fondamento.