Alla fine è arrivata, la valutazione dei docenti garantita da Renzi all’Ue, ben confezionata nel pacchetto di controriforme riassunte alla Merckel in comode slide col logo Ferrari. In tutte le scuole d’Italia, a un anno esatto dall’entrata in vigore della 107, col solleone: una tabella a campi chiusi stile quiz Invalsi, ormai assurto a idealtipo ministeriale della valutazione. Seppure con formati diversi, l’insieme degli indicatori varia lungo un continuum che va dall’elenco dei titoli all’indicazione delle attività aggiuntive. Con qualche perla, tipo il dichiarato «impegno all’automiglioramento» (ma solo se barrato con una x, perché se ci si limita a perseguirlo in concreto ogni santo giorno e non lo si mette per iscritto non vale) o l’indicazione della «percentuale nel raggiungimento di obiettivi individuali nella formazione del personale» (ma come si misura, in percentuale, un «contagio esistenziale» prima che professionale? E come lo si fa «oggettivamente», parola-feticcio nella scuola contemporanea?)

Fatico a scrivere queste poche righe. Fatico a illustrare una delle tre cose più rovinose (insieme all’alternanza scuola-lavoro, una montagna di tempo perso dagli studenti a scimmiottare un lavoro che ormai non c’è più per nessuno, e alla chiamata diretta e discrezionale degli insegnanti) imposte da una riforma che solo nella neolingua orwelliana di Renzi poteva essere denominata «buona scuola». I dirigenti hanno appena assegnato il bonus a un certo numero di docenti. Non troppo esiguo e non troppo ampio, recitava la circolare ministeriale, lasciando liberi migliaia di comitati di valutazione di baloccarsi per tre anni con indicatori e descrittori. Nelle tabelle, ad ogni attività formale corrisponde un punteggio. Un punto per una seconda laurea o un dottorato; un punto per qualche pubblicazione scientifica; due punti per un progetto; un punto per una collaborazione; mezzo punto per una qualche diffusione di buone pratiche … e così via contando. Perché è la somma che fa il totale, e il totale corrisponde a un premio in denaro. Un bel bottino? Macchè. Il governo ha stanziato 200 milioni di euro e i docenti italiani sono più di 800mila. A volerne premiare un terzo, stiamo parlando di qualche decina di euro; per i più «meritevoli», poche centinaia; per i più scaltri nel computo, qualcosa in più. Esattamente come nel mio supermercato, dove ogni 50 punti di spesa ho un bonus di 3 euro e il mercoledì punti doppi.

Era difficile immaginare un trattamento più umiliante per un lavoratore. E non perché parliamo di un’elemosina a fronte di un contratto bloccato da 10 anni e retribuzioni tra le più basse d’Europa. Non è solo una questione di soldi. Da un lato, i presidi elargiscono un bonus laddove dovrebbero pagare tutti – e non premiare qualcuno – per le ore di lavoro svolto: si chiamano straordinari e devono essere remunerati in modo equo, non con una regalìa. Dall’altro, si legittimano, attraverso la libertà di attribuzione di miserevoli premi in denaro, forme striscianti di esibizionismo, servilismo, opportunismo, in un mondo, quello della scuola pubblica, che ne dovrebbe essere ontologicamente privo, non solo perché giuridicamente equiordinato, ma soprattutto perché culturalmente estraneo alle dinamiche aziendali della competizione per il profitto. Ma soprattutto era difficile immaginare che tanti docenti, in tutta Italia, si affannassero a compilare la tabella, nella convinzione di meritare, ciascuno più degli altri, quell’osso che il governo ha gettato in pasto a un branco di affamati. Dopo anni di tagli a tutte le istituzioni scolastiche, anni di tagli agli stipendi di tutti i lavoratori della scuola, rifiutare una valutazione burocratica e discriminatoria in cui i presidi, ormai infeudati, hanno elargito a pochi i soldi di tutti, era il minimo che si potesse fare. Ma non si è fatto. Perché «pecunia non olet» anche per chi, in classe, rievoca le imprese di Vespasiano. Un cambiamento antropologico epocale, rispetto a quando i docenti rifiutarono in massa un concorso a quiz che avrebbe riservato l’aumento di stipendio solo al 20% della categoria.

C’è chi si è fatto premiare per la «puntualità»; chi per la «disponibilità»; chi perché «ha condiviso la mission della scuola», mostrandosi meritoriamente poco incline al pensiero critico. I professori e basta. Quelli a-politici, a-ideologici, neutrali. Capaci di sdegnarsi se parli a scuola di guerra e lavoro, mentre condividono su Facebook post razzisti contro i migranti. Di lamentarsi se i «loro» alunni vengono coinvolti in una conferenza perché perdono preziose ore di lezione ma tacciono acquiescienti sulla rapina di centinaia e centinaia di ore di scuola sottratte agli studenti mentre vengono trascinati qua e là per fingere di imparare un mestiere. Quelli che non reagiscono se presidi vecchi e nuovi, temprati da un anno in cui le poche voci contrastive venivano tacitate dall’interno, sciorinano reprimende o larvate intimidazioni preventive, suggerendo di non perdere tempo nei collegi, di non essere critici, di applicare la normativa senza discutere perché tanto loro ci staranno «col fiato sul collo».

La 107 è tagliata su misura per gran parte dei docenti italiani. Che, infatti, i 4 referendum abrogativi sulla scuola non li hanno mica firmati. Che hanno respirato di sollievo nel vedere che i sindacati, lungi dal mantenere la promessa di un fastidioso vietnam, hanno lasciato che nella scuola filasse tutto liscio come l’olio. E che non hanno mai capito che l’esercizio di una libertà responsabile, sancito dalla Costituzione, e di una democrazia partecipativa, garantita dagli Organi Collegiali, era l’unico vero «valore aggiunto» da coltivare nelle scuole. Ma purtroppo, come insegna Fedro, tutte le rane vogliono un re. Quelle bollite, poi, non ne parliamo.