In una nota di commento al Viaggio in Sicilia di Bernard Berenson apparsa in questa rubrica, ho tentato di mettere in luce una peculiare attitudine alla quale si dispone nel visitare luoghi e monumenti, nell’osservare paesaggi e opere d’arte. La sua cultura ha affinato la sua sensibilità. Berenson decifra il ‘qui e ora’ attivando le molteplici conoscenze che lo rendono consapevole di un ‘prima’: il critico d’arte, l’esperto conoscitore sa gli accadimenti intervenuti in un luogo, sa i trascorsi di un’opera. Ad essi fa ricorso per elaborare una cognizione adeguata, un congruo possesso del senso e dei significati che una scultura, una rovina, un paesaggio conservano entro di sé ed offrono alla meditazione dell’uomo di gusto. Un ‘prima’ che coniuga al tempo presente la permanenza di un tempo passato. Privato del ‘prima’ e circoscritto entro i banali ‘ora’ e ‘qui’ che sopprimono l’‘allora’ e l’‘altrove, il senso dell’opera e del luogo svanisce: il luogo si riduce a sito, l’opera a manufatto; diviene, questa, un oggetto esteriore, quello, da dimora, territorio. Se manca la consapevolezza che la nozione del ‘prima’ reca e comporta, ci è impossibile l’appropriazione di un luogo, di un’opera. Con ‘appropriazione’ si vorrebbe qui designare un processo poliedrico nel quale dinamiche diversamente interconnesse si muovono in un giuoco di reciprocità, distinzioni e correlazioni.

I dati sensibili del ‘qui e ora’, di un qualcosa che ci è di contro, che ci sta di fronte, da una coordinata esteriore, da mera percezione, vengono così a comporsi in cifra e arricchiscono la nostra interiorità di una nuova acquisizione di senso. Sapere il ‘prima’ è condizione necessaria ad acquisire tale consapevolezza, a riconoscere, cioè, nel trascorso del tempo non una immobilità, non un irrigidimento che iberna nell’inerzia luoghi e opere.

Al contrario. Si tratta di rivelare, delle opere e dei luoghi, la vita; la vita, che non è se non nel trascorrere del tempo, nel divenire. O istituiamo luoghi e opere come plessi di libere relazioni attive e coscienti, vive, o ci serriamo in fissità e chiusure e, riducendo a cosa opere e luoghi, procediamo, in realtà, a una reificazione di noi stessi. Nei costrutti del ‘prima’ risiede un’istanza di libertà, se libertà è ampliamento di consapevolezza, crescita ed effettiva espansione della nostra umana ‘onnilateralità’, per stare a un elevato argomento di Karl Marx, quand’egli riflette su alienazione e reificazione. Accosto agli attraenti stimoli che suscita quel modo di ‘viaggiare luoghi ed opere’ di Berenson e alle sommarie considerazioni qui accennate in tema di ‘appropriazione’ e libertà, un volume fotografico di Elser Esser stampato nel 2002 dall’editore Schirmer/Mosel di Monaco dal titolo Cap d’Antifer – Étretat. Le falesie e le spiagge ghiaiose di Étretat, sulla costa normanna, almeno dal quinto decennio dell’Ottocento ispirano la pittura di Schirmer, Boudin, Courbet, Monet. E pagine di scrittori, come Flaubert e Maupassant. Esser raccoglie quindici fotografie realizzate lungo il tratto roccioso di Étretat seguendo passo dopo passo certi appunti e schizzi topografici stesi da Maupassant su richiesta di Flaubert, che sta lavorando, in quei giorni, al suo Bouvard e Pécuchet.

Siamo nell’autunno del 1877. Flaubert, il 31 ottobre, scrive a Maupassant: «Ho bisogno d’una falesia che faccia paura ai miei due bonshommes (Pécuchet e Bouvard, appunto)… mi serve del calcare a picco come le falesie di Fécamp e di Étretat… dovresti conoscere bene quei paraggi, dammene dunque una descrizione». Maupassant risponde il 3 novembre.

Nell’intenzione di Flaubert i due personaggi saranno presi dal panico al pensiero di un imminente cataclisma che scuote le rocce e fuggiranno terrorizzati saltando e rovinando tra i sassi e le pozze d’acqua. Così Maupassant si immedesima nei movimenti dei due bonshommes ed Esser, a sua volta pone il suo treppiede esattamente nei punti che Maupassant descrive. «L’informazione che mi hai dato è perfetta», gli risponde il 5 novembre Flaubert. Ora l’intera costa da Cap d’Antifer a Étretat «è così chiara come se fosse presente davanti ai miei propri occhi». Un ‘luogo’, Étretat, che l’occhio fotografico di Esser rende visibile nella permanenza dei suoi ‘prima’.