«Chiaro e semplice fu il nostro cammino. Ci amavamo, volevamo fuggire la società, volevamo cercare la verità – ci incontrammo, ci demmo la mano e agimmo secondo la nostra religione. Eravamo liberi da qualsiasi pregiudizio, facemmo senza paura ciò che spirito e cuore ci riconoscevano come giusto – indipendentemente dall’abitudine della realtà – virtuosamente secondo il nostro sentire.». Sono le parole di un racconto giovanile (Île heureuse) di Max Horkheimer, futuro direttore dell’Istituto di Ricerca Sociale di Francoforte sul Meno. Esprimono il desiderio utopico di una vita lontana dalle convenzioni borghesi del disciplinamento e della repressione dei piaceri, così come l’urgenza e il bisogno di un’esperienza di vita diversa, libera, piena ed autentica. Si tratta di parole che non vanno isolate e bollate come un capriccio adolescenziale, ma poste in relazione con la riflessione di Horkheimer degli anni a venire, per il quale il tema dell’oltrepassamento e della de-reificazione del soggetto borghese, della critica al dominio e alla sublimazione delle passioni, rappresenterà una costante della sua attività speculativa.

La Dialettica dell’illuminismo, scritta a quattro mani con Adorno, ne rappresenta senza dubbio l’esempio più lampante, quando nel primo capitolo si descrive la figura di Odisseo che si incatena all’albero maestro della sua nave per non cadere alle promesse di felicità del canto delle Sirene, individuando in tal modo nel personaggio omerico quell’ideale di salvaguardia del Sé, che rappresenta il simbolo, o il prototipo del moderno soggetto borghese, chiuso nella propria autoconservazione.

E successivamente alla pubblicazione della Dialettica dell’illuminismo, lo stesso Horkheimer, stavolta assieme a Friedrich Pollock, scrive: «La nostra vita deve essere una testimonianza; realizzare l’utopia nel più piccolo dettaglio. Vogliamo l’altro, il nuovo, l’incondizionato. La nostra vita è seria. Da noi le leggi sociali non devono vigere. Oggi, che è così tardi, non possiamo più sprecare tempo». L’oggi a cui i due amici e colleghi si riferiscono è l’Europa del dopoguerra, nella quale hanno fatto ritorno dopo l’esperienza d’esilio negli States, trovando un continente provincializzato nello spirito e asservito ai magnati dell’Est e dell’Ovest; un’Europa rimasta cieca e impotente di fronte all’orrore del miracolo economico e delle false democrazie liberali. Un’Europa e un mondo in cui il pensiero critico si ritrae, alla ricerca di un rifugio e di un riparo in cui poter sopravvivere all’omologazione della vita quotidiana.

Di questa faticosa sopravvivenza parla Nicola Emery in un volume pubblicato per Castelvecchi, e il cui titolo è decisamente significativo: Per il non conformismo. Max Horkheimer e Friedrich Pollock: l’altra Scuola di Francoforte (pp. 282, euro 27). Lavorando sulla base di testi e lettere non ancora tradotti in italiano o mai pubblicati, il libro oltre a ricostruire la relazione esistenziale e la reciproca influenza intellettuale fra il filosofo e l’economista, offre una ricognizione dettagliata della teoria critica alla luce di quella verità etica dell’anticonformismo, che i due amici cercano di praticare fin dalla giovane età, e che non smetteranno mai di coltivare nemmeno in età adulta, finendo per realizzare la loro piccola utopia esistenziale andando a vivere fianco a fianco in un piccolo villaggio della Svizzera italiana. La ricostruzione di questo rapporto intreccia l’elemento biografico con la riflessione teorica, e getta una luce nuova sull’evoluzione della teoria critica, intesa non solo come uno strumento logico-teorico, ma come autentica forma di vita, sotto la cifra costante del «non conformismo».

Emerge così un quadro in grado di rendere conto dell’evoluzione del pensiero critico, della sua progressiva declinazione in una filosofia della sopravvivenza che ha portato ad una svalutazione della teoria critica stessa, adeguatasi ad una visione «welfarista» e ad un riformismo democratico, che già Pollock aveva indicato come l’unica prospettiva reale di cambiamento nelle attuali democrazie liberali. Tale difesa del «mondo libero» implica necessariamente una revisione del marxismo delle origini: «Un tempo Marx fu la speranza per tutti coloro che soffrivano nella società, e non erano soltanto gli operai: si pensi al nazionalsocialismo. Credere nel marxismo, a quell’epoca, aveva ancora un valore, un significato, mentre oggi da una rivoluzione ci si deve aspettare il contrario». Oggi, nella maggior parte dei Paesi occidentali «esiste la democrazia, e rovesciando il sistema si arriverebbe alla dittatura. Il rovesciamento non impedirebbe la dittatura ma la susciterebbe». Questo non significa ammettere che la realtà, oggi, sia arrivata a coincidere con il regno della libertà; non implica che la teoria critica debba adeguarsi conformisticamente all’ordine dei fatti, ma rappresenta piuttosto una invocazione costante a misurare e ripensare il mondo libero di oggi, attraverso una rivalutazione critica dello stesso concetto di libertà. «Bisogna parlare appunto di questo principio della libertà. Corre il rischio, infatti, di diventare uno slogan».