Chi provasse a interpretare l’universo occidentale contemporaneo attraverso la decifrazione di quella che è la sua industria culturale rimarrebbe, forse, un poco disorientato di fronte alla sovrabbondante presenza di tutto quanto concerne il culinario. Non servirebbe che una breve analisi superficiale, che una prima occhiata distratta a indurre l’ipotetico ricercatore in uno stato di opprimente delizia.
Così come vengono raffigurati gli Interni della biblioteca del buongustaio (in una stampa ottocentesca di Dunant), la nostra quotidianità si rivela del tutto simile a una imponente libreria, i cui ripiani colmi di conserve e frutta candita, di bottiglie di vino, liquori e di boccali, di dolci, di salsicce e timballi sono illuminati da un gigantesco prosciutto di Bayonne, maestosamente sospeso al soffitto al pari del più meraviglioso dei lampadari.

Quale oggetto prediletto dalla contemporaneità, il culinario riscrive sensibilmente i sistemi culturali e i modelli esperienziali del quotidiano. Ma in primo luogo e soprattutto – si sarebbe portati a pensare – esso dovrebbe ridefinire in maniera fortemente significativa quelle che sono le abitudini e i comportamenti alimentari della nostra società. Se tale modificazione fosse proporzionata al consumo di prodotti culturali concernenti il culinario, quello che ne deriverebbe, dovrebbe essere quasi un meraviglioso rinascimento gastronomico, capace di trasformare l’atto del cibarsi in una costante ricerca di sapori nuovi e sofisticatissimi o, se non altro (e più verosimilmente), se ne otterrebbe una maggiore consapevolezza, in grado di determinare una crescente attenzione circa le modalità dell’alimentarsi.

Tuttavia, la indiscutibile predominanza di questo oggetto culturale nel mondo occidentale contemporaneo non riesce che a produrre due straordinari paradossi. Da una parte l’individuo pone una attenzione sempre minore alla effettiva qualità degli alimenti consumati (limitandosi a riporre, tutt’al più, la propria piena fiducia nella scelta indiscriminata di una produzione che sia indistintamente biologica, se non del marchio più costoso).

D’altra parte si determina una fortissima volgarizzazione del gusto individuale e un suo irrimediabile impoverimento (violentato com’è, in maniera continua, da sostanze che esaltano o tentano di riprodurre artificialmente i sapori e i profumi reali degli alimenti). A verificarsi è quindi una scissione completa tra l’alimentazione per come viene effettivamente vissuta nel quotidiano e la produzione di un immaginario dell’alimentare sempre più fascinoso e accattivante (fatto di principianti elevati allo statuto di cuochi, di elaborate ricette che si fanno semplicemente realizzabili e di chef mediaticamente osannati al pari di star hollywoodiane).

Così, se nella Francia post-rivoluzionaria di Grimod de la Reynière erano solamente i ricchi parigini a potersi permettere di trasformare il proprio cuore in un ventriglio, convertendo i propri sentimenti in sensazioni e i propri desideri in appetiti, oggi sembra che l’intera società occidentale sia disposta a compiere questa conversione, pur nella piena consapevolezza di non riuscire, in gran parte, a ottenere in cambio null’altro che la sola immagine patinata di una raffinatissima pietanza.

Questa straordinaria sproporzione tra immagine culinaria e abitudini alimentari, pur trovando un inaspettato punto di equilibrio precisamente nell’atto del cucinare (che in forza della propria universalità riesce a produrre l’illusione di una perfetta uguaglianza tra gli individui) si rivela a ben vedere tutt’altro che risolta, anche perché pare mettere in campo tutta una fitta rete di contrapposizioni semantiche a essa ricollegabili.

Tra queste, la più interessante da analizzare risulta essere, senza ombra dubbio, quella tra gusto e disgusto, i cui confini sempre meno identificabili sembrano oggi richiedere una nuova definizione. Proprio questo è il principale obiettivo che si prefigge Maddalena Mazzocut-Mis con Dal gusto al disgusto. L’estetica del pasto (Raffaello Cortina Editore, pp. 208, euro 19). Costituito da sei diversi saggi, realizzati da altrettanti autori, il volume utilizza – in primo luogo – l’elaborazione filosofica per indagare una tematica che trova nel cibo uno dei suoi punti focali, ma che riconosce nella letteratura, nel cinema, nella pittura e nella fotografia altri validi luoghi di riflessione.

A cavallo tra alimentazione ed estetica (con un prevalere – nelle due metà del libro – ora della prima, ora della seconda), questo lavoro si propone di riportare alla luce le tappe fondamentali di una tradizione culturale passata, ma che ancora molto riesce a spiegare del panorama contemporaneo.

Dalla condanna platonica del gusto quale senso legato ai più bassi istinti umani, sino alla sua attenta rivalutazione in epoca illuminista, dalla ottocentesca nascita della gastronomia alla estetica disgustosa, così frequentemente adottata dagli artisti del panorama contemporaneo, gli autori dei saggi intessono uno straordinario racconto attorno all’estetica del pasto, senza però mai dimenticare quella che (grazie a un ragù) Jean-Baptiste Du Bos ha individuata quale la natura sentimentale del gusto.

«Si usa forse la ragione per sapere se un sugo è buono o cattivo e si pensò mai, dopo aver stabilito i principî geometrici del sapore e definito le qualità di ciascun ingrediente che serve per realizzare tale pietanza, di esaminare la loro proporzione per decidere se il sugo è buono? Niente affatto».