Kommunisten di Jean Marie Straub non era in gara a Locarno, forse, anzi sicuramente lo stesso regista non avrà voluto al punto da presentare una «copia lavoro» in cui il puntiglio per la luce che attraversa il cinema di Straub e Huillet sembra quasi essere messo in secondo piano. La prima cosa che ci dice Kommunisten è che Straub pensa qui il suo cinema come un archivio personale da utilizzare funzionalmente, così che questo film diviene una lezione in cui i frammenti dei film del passato, più uno «nuovo», in apertura, ispirato a Malraux (vedi accanto Rinaldo Censi) con la voce dello stesso Straub (fuori campo) che interroga i comunisti in prigionia, possono essere utilizzati come materiale di studio.
Kommunisten sono lui stesso e Danièle Huillet, ma è soprattutto quel loro cinema che ha attraversato il Novecento, i suoi conflitti e le sue impossibili utopie cercando nelle pieghe delle parole e delle immagini che le tessevano quanto rimasto sospeso, nascosto, sepolto tra gli oblii imposti da chi la Storia la scrive e la determina. Ogni «pezzo« di film ci porta in un terreno aperto, in un passatoche è ci appare attuale, perché quegli interrogativi sono rimasti senza risposta, se non quella di un’immagine che con determinazione non smette di porli.
Lotta di classe, dunque, e resistenza; lotta al colonialismo che comincia in fabbrica – un lungo piano di occupazione nel Cairo che rivendica la propria indipendenza dagli inglesi laddove è cominciato il cinema. O forse anche il suo trucco, gli operai messi davanti alla macchina da presa dai fratelli Lumière, padroni della fabbrica, potranno mai essere operai in lotta? «Le masse rurali organizzano attentati e sabotaggi, lavoratori, studenti, ufficiali, disoccupati manifestano uno accanto all’altro nelle strade della capitale».
Le lacerazioni dei comunisti, i loro cambiamenti, un movimento che riflette le trasformazioni delle società. L’Italia contadina di Operai contadini che piano piano si fa sedurre dalla fabbrica. L’Italia dei partigiani e dei fascisti, l’Europa del dopoguerra. «Il genocidio ha prodotto per una sola generazione ciò che le classi subalterne hanno subito in secoli … ». Fortini/Cani, il nazismo e la violenza dell’uomo sull’uomo nell’età moderna.
Cosa significa comunisti? Cosa è nella Storia e cosa oggi in questo film che scompone la produzione di senso storico senza retorica della convenienza? Il cinema di Straub costruisce un pensiero, e in questo spazio dichiara la sua forza di resistenza, l’essere cinema comunista che significa non piegato alle celebrazioni dell’ideologia, e al corrispettivo di ciò che si intende – con malinteso – impegno o politicità delle immagini. Al contrario la sua libertà è porsi in contrasto con gli apparati dominantim cercando la corrispondenza con la parola poetica, una nuvola, uno scorcio di cielo, le Alpi apuane, un bosco. Straub ci riporta al Godard di Adieu au langage, rivisto in questi giorni, fino al Pedro Costa di Cavalo Dinheiro, straubiano nel senso che anche Costa cerca la sua immagine nei fuoricampo della narrazione, nella parola spogliata dall’idelogia.
Proviamo a ritrovare le tracce di ciò nelle visioni locarnesi lasciate ormai alle spalle, un’edizione il cui palmarès finale della giuria guidata da Gianfranco Rosi appare impeccabile: Lav Diaz e le Filippine negli anni Settanta del suo From What is Before, ancora la Storia intesa come ricerca di immagini, di storie, e insieme rivendicazione di un immaginario. E, appunto, Pedro Costa, che erano però i fuoriclasse in una competizione (gli unici possibili viene da dire, e a suo modo lo è anche Listen up Philips di Alex Ross Perry) assai fragile. Lo stesso vale per le altre sezioni – forse troppi due concorsi? – e questa fragilità caratterizzata da molte storie generazionali, perché i registi sono giovani e perciò parlano del proprio tempo e delle persone a loro vicine, non provoca rotture né sussulti. Uno dei motivi è che essere nel proprio tempo non significa assecondarlo, cosa che invece spesso emerge da queste storie di nevrotici trentenni precari, persino ossessivi, che però l’immagine accarezza immergendoli in universi pieni di riferimenti noti, piacevoli, rassicuranti.

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Mi è piaciuta l’ingenuità dei fratelli brasiliani Ricardo e Luiz Pretti e di Pedro Diogenes. Prodotto col crownfunding il loro film cerca l’anarchia delle immagini e del cinema e della vita. Una dichiarazione di resistenza che corre sulle onde di una radio clandestina, dalla quale i tre protagonisti incitano alla lotta contro capitalismo e repressione a cominciare dalla sintassi delle proprie immagini. Com os punhos cerrados si avvicina un po’ a quel cinema novo eccentrico, omaggiato con la proiezione di Copacabana mon amor di Sganzerla, da cui (forse) deve ancora imparare il gusto ludico e festivo – ma questa sembra una caratteristica di quasi tutto il cinema di ricerca che viene coccolato adesso, poca sensualità, superfici tonde, questa sì l’aria dei tempi.
E invece senza nostalgia si può dire Adieu au langage, e ogni volta mettersi in gioco. Ce lo mostra Helena Ignez, musa del cinema novo brasiliano, regista di Poder dos Afetos, magnifico esempio di un cinema politico e spregiudicato, la cui politicità si radica ancora una volta nell’immagine. E che mischia dolcezza degli affetti, e il suo potere, femminismo e travestimenti coloratissimi da underground di Jack Smith.
La storia di un amore, le parole di una vita passata, e la felicità di un bacio in primo piano. Ci sono le voci di tanti personaggi irrequieti e anche misteriosi che sembrano alludere a un universo personale e insieme alla trasformazione del pensiero. Helena Ignez tra corpi e colori ci porta in quel sogno in cui si incontrano poesia, teatro, giochi dei bimbi, infanzia, giovinezza, vecchiaia. Un’immagine eterna e pulsante che danza nel tempo e nello spazio. Nei vagabondaggi della giovane protagonista, tra i riflessi di specchi, e un set che rivendica la sua irriverenza, vuve un cinema che«« scompiglia le convenzioni. Con grazia, divertimento, amore.