Forse dovremmo tornare a servirci di una vecchia parola, da troppo tempo dismessa dalla cassetta degli attrezzi: alienazione. Marx parla per la prima volta di alienazione (Entfremdung) nella sua tesi di laurea. Una tesi dedicata – come si sa – alle Differenze fra la filosofia della natura di Democrito e quella di Epicuro. Qui, discutendo di atomismo, Marx nota come persino nell’atomo, nell’apparentemente unico e indiviso, vi sia contraddizione, ossia un movimento che scinde, divide.
A essere separati, in questa visione delle cose e del mondo, sono esistenza e essenza. La prima, alienata dalla seconda. Ecco perché nell’alienazione – come avrebbe detto Adorno – «la vita non vive». Sperimenta, ma non vive. Non vive e non imprime quelle tracce d’esperienza che siamo soliti chiamare «il vissuto».
In tedesco, due parole indicano le forme dell’ «esperienza»: Erlebnissen e Erfahrungen. Con la prima, siamo nel campo dell’episodico, di ciò che non si concatena. Con la seconda forma di esperienza, Erfahrungen, siamo nel campo di ciò che lascia tracce, segni, porta a mutamenti, eppure marca un’unità. Il fatto che, come scriveva Walter Benjamin, noi si sia entrati in un’epoca ricca di esperienze episodiche e povera di Erfahrungen, è un dato autoevidente. Per ogni episodio, per ogni frammento esperienziale del primo tipo, cerchiamo marcatori esterni. Ma il «fuori» è precisamente ciò che ci sfugge: il mondo, afferma Byung-Chul Han, è diventato additivo, non narrativo. Sovrapponiamo frammento a frammento, sperando di «fare spessore». Dalle vecchie fotografie e dai vecchi cimeli di viaggio, che ancora tentavano di «raccontare», siamo passati al marcatore instagram, al «mi piace», al «sono qui», alle mappe che si ridefiniscono infinitamente perché infinitamente mobili e auto-organizzantisi attorno al «puntino» che ci rappresenta su uno schermo. Alla messa in scena, con le funzioni «periscope» e le telecamere connesse ventiquattro ore su ventiquattro che verranno, si unisce il retro scena.

Povertà dell’esperienza

Passo dopo passo, ma sempre col passo del gambero, l’alienazione dal mondo diventa, come Marx ci ha insegnato, alienazione del mondo. Inutile negare che la potenza con cui questa doppia elica alienante si torce ha subito e subisce un’accelerazione sempre più radicale. Sull’assoluta povertà di esperienza (Erfahrungen), sulla simmetrica proliferazione di frammenti esperienziali e sulla sovraesposizione pornografica del sé nella nostra postmodernità digitale ha molto insistito Byung-Chul Han, filosofo tedesco di origine coreana, che sulla coda lunga della Scuola di Francoforte si è fatto conoscere anche dai lettori italiani, grazie ai tre volumi editi da Nottetempo, La società della stanchezza, Eros in agonia e La società della trasparenza oltre a un interessante ebook edito da goWare pochi mesi fa: Razionalità digitale. La fine dell’agire comunicativo.
A questi lavori, si affianca ora Nello sciame. Visioni del digitale (traduzione di Federica Buongionro, pp. 105, euro 12) che in qualche modo li integra e ne viene integrato. Al cuore della riflessione di Byung-Chul Han c’è una critica, molto chiara e evidente, a una visione dell’uomo immerso e alienato in uno pseudo ambiente digitale. È quella che l’autore chiama «antropologia idealizzata dello sciame creativo». Un’antropologia che si è declinata in forme di spiritualismo, più o meno manifeste, che hanno finito col convergere verso una sorta di pentecostalismo digitale fondato sulla promessa di liberare l’uomo dal sé isolato, producendo uno spirito capace di intonarsi con il simulacro dell’altro (in realtà: solo una diversa declinazione dell’ «uguale) in uno spazio comune di risonanza (il web).

Ciò che si è prodotto, dopo i primi decenni di net-entusiasmo, è però nient’altro che uno sciame acefalo, una folla di tipo orizzontale l’avrebbe chiamata Gustave Le Bon, in balia di un messianismo della connessione integrale sempre di là da venire eppure capace, già qui e ora, di dispiegare i suoi effetti nefasti. Assistiamo così all’erosione dello spazio pubblico, inteso come luogo del noi – un’erosione condotta però proprio in nome del «noi». L’Uguale risplende in una società interamente deprivata del suo «negativo», dove non solo ogni forma di opposizione, ma anche ogni azione è preventivamente eliminata e sostituita da un’informazione. Informarsi equivale a esserci. Comunicare equivale a essere. Questo il teorema di una società dove ogni interstizio e ogni chiaro-scuro viene bruciato in nome del nuovo idolo: la trasparenza.

In nome della prestazione

Domina, in questa società, la forma del «soggetto di prestazione». Un soggetto avvinto in pratiche di auto-ottimizzazione dello sfruttamento di sé anche quando non lavora, anche quando gioca, anche quando crea, anche quando si sente immerso in un flow che chiama «libertà». Ecco perché il soggetto di cui parla Byung-Chul Han tutto è fuorché un homo ludens. Assomiglia piuttosto a quel homo festivus di cui parlava Philippe Muray: vivendo il carnevale ogni giorno, finisce per sovvertire la sovversione, per lottare contro la lotta e per resistere contro ogni resistenza. Non sbatte i pugni sul tavolo, non agisce: gioca con le dita su una tastiera. Il reincanto del mondo passa dal suo stordimento.

La parola «digitale», ci ricorda non a caso Byung-Chul Han, rimanda al digitus, al dito che conta. L’homo digitalis conta, calcola, misura. Anche quando non lavora, anche quando «crea» il suo mondo è segnato dal calcolo e dalla prestazione.

L’homo digitalis non gioca, non crea, tanto meno agisce. L’atrofia della mano per eccesso di non lavoro porta a un’artrosi digitale delle dita, rendendo impossibile al soggetto ogni esperienza, anche l’esperienza della sottrazione fondamentale che lo riguarda.

Piaccia o meno il tono quasi profetico di Byung-Chul Han, la sua diagnosi è spietata ma improntata al realismo: dal digitale non è nata alcuna resistenza materiale che si possa superare per mezzo del lavoro. Al contrario, il lavoro si è avvicinato – questo sì – al gioco, ma nella sua dimensione digitale non ha dato vita ad alcun tempo dell’ozio. L’antropologia idealizzata della classe creativa avrebbe prodotto quindi solo l’ennesima alienazione. Anche la biopolitica, nella visione di Byung-Chul Han, ha fatto il suo corso.

La società digitale è oramai postmortale, postnatale, post-politica, ma anche post-panottica – avverte Byung-Chul Han. Solo se gli atomi si connettono l’un l’altro, in una rete che li isola nel momento stesso in cui li avvince questo sistema può reggere. I big data, il data mining, la possibilità di controllare lo sciame partendo dalla previsione affettiva, emotiva, impulsiva dei suoi movimenti sembra aprire le porte a un tempo segnato da qualcosa che potremmo chiamare «psicopolitica digitale». Uscirne è la questione cruciale.