«Bernie, la tua campagna ha ispirato milioni di americani, in particolare giovani che hanno dedicato anima e cuore alle primarie. Hai fatto dell’economia e della giustizia sociale due temi fondamentali, come devono essere. A tutti i tuoi sostenitori, qui e nel resto del paese: voglio che sappiate che vi ho sentiti. La vostra causa è la nostra. Il nostro paese ha bisogno delle vostre idee, della vostra energia e delle vostra passione. È l’unico modo per tradurre questa piattaforma progressista in reale cambiamento per l’America – l’abbiamo scritta insieme, adesso realizziamola insieme». Chiudendo una convention democratica che all’interno del Wells Fargo Center ha funzionato come una macchina oliatissima (fino alla cascata finale di palloni), ma al suo esterno è stata turbata da dimostrazioni che, anche se in tono minore, continuano ancora oggi, giovedì notte, dopo la sua famiglia, gli Obama e Joe Biden, Hillary Clinton ha ringraziato Bernie Sanders.

Preceduta da un video prodotto da Shonda Rhimes e narrato da Morgan Freeman, da Katy Perry e dal feroce attacco a Donald Trump offerto dal padre di un soldato musulmano morto in Iraq, Hillary è arrivata sul palco per accettare ufficialmente la nomination democratica alla presidenza Usa con un’aria rilassata, sorridente e sicura che non sempre le riesce quando si trova di fronte a un grande pubblico. «Non sono un politico naturale come il presidente Obama o mio marito», ammette ogni tanto anche lei, quasi scusandosi. E, in effetti, sembra molto più a suo agio, ed efficace, quando dibatte con un avversario o deve tener testa a una commissione di deputati assetati del suo sangue (undici ore su Bengasi, senza battere ciglio) che davanti alle folle dei comizi, o a una stanza piena di giornalisti.

Insieme a una dose repellente di misoginia (di cui quasi nessuno parla, e che non si limita agli uomini), questa sua scarsa fluidità comunicativa (specie a confronto di due fuoriclasse come Bill Clinton e Barack Obama), insieme alla leggendaria, ostinata, riservatezza, è responsabile almeno in parte dell’aura di diffidenza e sospetto che la circonda, e con cui Hillary dovrà fare i conti per tre mesi che ci separano dal voto. Non a caso, negli sceneggiatissimi quattro giorni di convention, culminati con il suo discorso di giovedì, abbiamo sentito spiegare così spesso che la vera forza di Hillary Clinton sta dietro le quinte, nel dettaglio della politica, nella sua esperienza, nella sua instancabilità e nella sua perseveranza che veniva in mente Tracy Flick, la studentessa secchiona del geniale film di Alexander Payne, Election, che è bravissima ma detestata da tutti (e che alla fine non a caso sembra indirizzata verso una carriera politica).

Insieme ai suoi speechwriters (tra cui –sembra – anche l’ex di Obama, Jon Favreau) Clinton ha affrontato il problema della sua «opacità» anche in un passaggio del discorso: «La verità è che in tutti questi anni di pubblico servizio, la parte del “servizio” mi è sempre venuta più facile di quella del “pubblico”. Capisco che alcuni di voi non riescano ancora a farsi un’idea di chi sono veramente». E ancora: «È vero che trasudo dettagli politici. Ma nessuno dettaglio è troppo piccolo quando è in gioco il futuro di tuo figlio», suggerendo che, insieme alla sua esperienza, è anche quella sua qualità secchionesca che la rende il candidato migliore per la presidenza. Per sottolineare come quella qualità sia una parte fondamentale è ricorsa anche a un precetto metodista: «fai tutto il bene possibile, al maggior numero di persone possibile, in tutti i modi possibili e il più a lungo possibile».

Insieme a un ottimismo definito da molti quasi reaganiano, da contrapporre allo scenario postapocalittico di Cleveland, «stronger together», più forti insieme, è stato il ritornello più frequente di questi quattro giorni a Philadelphia, e Clinton lo ha ripreso spesso nel discorso : «non mi fido di nessuno che promette di risolvere tutto da solo», ha detto con chiaro riferimento all’affermazione, nel discorso della nomination di Trump, «solo io posso risolvere la situazione». «Trump vuole che gli americani abbiano paura del futuro, e paura uno dell’altro», ha detto ancora, citando poi la famosa frase di Roosevelt «l’unica cosa di cui bisogna avere paura è la paura stessa». E, evocando l’irascibilità e l’imprevedibilità del suo avversario, Clinton ha ammonito: «Uno a cui puoi far perdere la calma con un tweet non è la persona che vuoi al controllo di un arsenale nucleare».

Rispetto alla politica estera, è quella nazionale a far la parte del leone alle convention e, spesso accusata di essere troppo soft con Wall Street, Clinton ha punteggiato il discorso di riferimenti all’ineguaglianza sociale ed economica che affligge il paese e che ha reso possibile l’improbabile candidatura di Trump: «Credo che la nostra economia non funzioni come deve perché la nostra democrazia non funziona come deve», ha affermato, reiterando le promesse contenute sulla piattaforma di modificare le leggi sui finanziamenti elettorali, ridimensionare Wall Street e aumentare le tasse all’uno percento.
Insieme a tutto il resto, ha ricordato che la serata aveva anche una portata storica: «Questa sera abbiamo raggiunto insieme una pietra miliare nella marcia per rendere la nostra unione sempre migliore: la prima volta che uno dei due partiti maggioritari nomina una donna alla presidenza degli Stati Uniti. Sono così felice che sia venuto questo giorno. Per le nonne e per le bambine, ma anche per gli uomini e i bambini – perché in America, quando cade una barriera, si apre la via a tutti».