Nelle ultime settimane due persone sono morte durante un TSO: il ricovero coatto per i pazzi ritenuti pericolosi per se stessi o per gli altri. Un debole allarme che già si è spento nel suo breve rumore mediatico. Come tutte le barbarie della nostra epoca tecnologica, anche lo sterminio dei pazzi come soggetti dotati di diritto di cittadinanza e di dignità personale unisce all’efficienza tecnica l’assenza di tracce visibili e scandalizzanti.

A dispetto dei periodici sintomi di un disagio fortissimo, che resta sepolto nell’omertà, la psichiatria sta sprofondando nella sua mutazione definitiva in strumento di puro controllo repressivo della devianza.
Una componente repressiva la cultura psichiatrica l’ha sempre avuta a causa della forte domanda di difesa contro la destrutturazione delle certezze psicologiche collettive che la follia provoca.

Gli psichiatri hanno dovuto mediare tra la soddisfazione di questa domanda e l’impegno nella cura della sofferenza psichica. Mediazione complicata dalla pressione proveniente dal paziente psichiatrico, il quale non fa domanda di assistenza ma di coinvolgimento umano, di relazione lontana dalle convenzioni formali che smorzano i contrasti nel quieto vivere. Il mettersi del soggetto curante fuori dal vivere convenzionale, comporta una destabilizzazione del proprio assetto emotivo e mentale che non è facile gestire e vivere.

Nonostante le correnti opposte che dominano il campo della sua azione, la psichiatria ha mantenuto sempre viva una tradizione nobile di passione, un interesse a contestare i processi di normalizzazione e la reclusione istituzionale del malessere.

Tra poco, senza cambiamenti radicali, di questa tradizione si vedranno solo le ceneri. I luoghi della cura psichiatrica sono desolati e demotivanti. I giovani psichiatri, formati come “ragionieri” della scienza farmacologica, sono privi di capacità relazionali adeguate e di conoscenza della complessità psichica. Si difendono dai loro pazienti con prescrizioni mediche e comportamentali e delle richieste dei familiari accolgono solo la stanchezza e l’esigenza di liberazione da un peso insopportabile.

L’uso spregiudicato della farmacologia e delle neuroscienze, che segue i dettami dei “mercati” e se ne frega del discorso scientifico, ha installato al governo della cura delle emozioni un organicismo, tanto spregiudicato quanto stupido, che vede in ogni espressione dei nostri sentimenti l’estrinsecazione diretta di un genotipo o di una formula neurochimica.

Nell’affermazione di uno stile di vita da psicotici normali (“normotici”), gioca un ruolo determinante l’alleanza inconscia tra gli opposti: i repressori e i presunti liberatori.

I “politicamente corretti” offrono alla nuova recinzione della pazzia un sostegno culturale impensabile. Costoro vedono la devianza come estensione diversificata del benessere psichico e rifiutano di riconoscerla come la sua più insanabile ferita e la sua più implacabile contraddizione.

La mentalità diffusa che tende a vedere in un ogni deviante un “diversamente normale” – la prova che l’ipocrisia non è la mediocrità del singolo ma una piaga di massa- dà man forte ai silenziatori scientifici della follia.

La follia interroga la nostra pretesa di una vita sana che vuole fare a meno dell’imprevisto, della sofferenza e della perdita. Le pillole che ci risparmiano il dolore bastano a silenziarla e se un vivere troppo felice ci apparirà troppo insipido, si troverà pure un rimedio artificiale per reintrodurre un po’ di disagio.

I pazzi contestano il perseguimento psicotico di una società di normali, ma una civiltà di drogati li sconfiggerà.