La notizia di cronaca che riporta del riuscito trapianto, per la prima volta in Europa, in Inghilterra , di un cuore espiantato da un uomo clinicamente morto, apre delle prospettive cliniche ed etiche di prima grandezza. Non è la prima volta che un cuore morto viene innestato con successo su di una persona viva, è già successo qualche tempo fa in Australia, ma in questo caso la rilevanza sta nel tempo trascorso tra l’arresto dell’organo ed il momento dell’intervento, più lungo del caso australiano, che apre la porta a quell’archetipo ancestrale dell’immortalità fisica attraverso la rianimazione della materia organica tanto bene illustrato dal Frankenstein di Mary Shelley.

Ora, al di là della tenuta più o meno lunga del trapianto, tornano a porsi i quesiti che già al tempo del primo intervento analogo, quello operato da Christian Barnard nel lontano 1967, poneva la nuova tecnica: cos’è una persona, cosa ne forma l’individualità unica ed irripetibile, è possibile «restare se stessi» ricevendo organi di un altro individuo, soprattutto il cuore, vaso simbolico dei sentimenti e delle regioni più profonde dell’essere? E ancora: è ammissibile rianimare un cadavere, cioè resuscitarlo? Porsi cioè alla stessa stregua della divinità che ne ha decretato la morte?

In queste due serie di questioni, che ovviamente ne portano molte altre, risiede il senso di un dibattito che ondeggia tra psicologia ed etica religiosa. Nessun organo come il cuore, infatti, assomma in sé sia la simbolica del principium individuationis cioè dell’unicità identitaria di un individuo, sia quello di una «intelligenza superiore», l’intelligenza del cuore appunto, in grado di far risuonare il nostro organo con quello della Creazione e del suo Creatore stesso, simboleggiato nell’iconografia cristiana col Cuore di Gesù o con quello della Vergine dei sette dolori, trafitto di spade. «Il cuore e non la ragione sente Dio», dice Pascal.
Ma la supremazia del cuore in quanto organo centrale dell’individualità, più fondante in questo senso del cervello, lo troviamo già in Aristotele che, nel suo De generatione animalium ci dice come sia il cuore l’organo che primo si sviluppa e poi sviluppa l’embrione, arriva do ad affermare che «il principio naturale è nel cuore».

Anche Isidoro di Siviglia, l’enciclopedico saggista medioevale, nel suo monumentale trattato Etymologiarium sive Originum afferma che: Cuore è nome derivato dal greco kardias, ovvero da sostantivo cura: nel cuore , infatti, risiedono ogni sollecitudine e causa di conoscenza (causa scientiae). Ma è certamente S. Agostino il fondatore del «primato del cuore», avvalorato poi dall’avvento dell’amor cortese che Dante così bene ci descrive nel Paradiso.

Certo il cuore è anche l’organo di passioni feroci, basti pensare all’episodio del Decamerone in cui Messer Guiglielmo Rossignone da da mangiare a sua moglie il cuore di Messer Guardastagno ucciso da lui perché amato da lei. L antropofagia, in ogni tempo e cultura, ed ancora oggi negli episodi più barbari delle guerre attuali, vede l’atto di mangiare il cuore del nemico sia come forma di appropriazione delle sua forza vitale che come ultimo sfregio al suo cadavere. Anche nella Vita nuova, però, sempre in omaggio alla visione «cardiaca» dell’Amor Cortese, Dante sogna che la sua amata gli mangi il cuore, volendo con questo simboleggiare il rapimento spirituale che lo coglie alla vista delle figura di Beatrice. Arrivando ai nostri tempi basti riferire l’inquietudine della signora Washkansky, moglie del primo trapiantato che, alle domande dei giornalisti sul suo stato d’animo rispondeva che ciò la preoccupava era che suo marito non la amasse più.

Ancora più sottile però fu la domanda posta al trapiantato stesso che aveva, da ebreo, avuto in dono dalla chirurgia un «cuore da gentile»: Washkansky disse che «si sentiva» benissimo, come pure il secondo trapiantato da Barnard che ricevette da bianco nel Sud Africa razzista un cuore di un nero.

E dunque anche se la scienza avanza di buon passo, le ascendenze filosofiche e simboliche resteranno permanenti per molto altro tempo mettendo il nostro cuore al riparo da ogni meccanizzazione eccessiva.