Il dilemma sunnita scuote l’Iraq: la leva utilizzata dall’Isis nella conquista di un terzo del paese è stata la rabbia della comunità sunnita, a cui dal 2003 è stato strappato un controllo esercitato per quasi un secolo, dall’indipendenza del 1923. In questi dieci anni i sunniti sono stati vittime di politiche discriminatorie che hanno acceso la resistenza armata. Oggi quel sentimento è strumento nelle mani delle milizie di al-Baghdadi, insieme ai fragili equilibri regionali. Ne abbiamo parlato con Salah Al Nasrawi, giornalista e analista iracheno per Al Jazeera e del quotidiano egiziano Al Ahram

Nasrawi

In che modo la questione sunnita ha aiutato l’avanzata jihadista? Quale il ruolo dei regimi arabi nel sostegno alle istanze sunnite?

L’Iraq è stato governato dalla minoranza sunnita per 80 anni. Con la caduta di Saddam, i sunniti hanno avuto la fondata impressione di aver perso tutto: il sistema architettato dagli Stati uniti ha permesso alla comunità sciita di assumere il controllo del paese assegnandogli la maggioranza dei seggi in parlamento. I sunniti, che si sono sempre considerati i fondatori dell’Iraq, non hanno mai accettato tale situazione e l’hanno combattuta fin dall’inizio. Questo spiega l’esplosione delle divisioni settarie durante l’invasione Usa.

A ciò va aggiunta la dimensione regionale: nel 2003 l’Iraq finisce in mano agli sciiti, smuovendo significativamente gli equilibri mediorientali. Paesi come Turchia, Giordania, Arabia Saudita non hanno mai accettato il governo sciita: alcuni di loro si sono limitati ad attendere una modifica degli equilibri iracheni, altri hanno operato per cambiarli attraverso finanziamenti ai gruppi sunniti o aiuto militare alla resistenza armata. Da parte loro, gli sciiti – minoranza in tutto il mondo arabo, esclusi e marginalizzati – hanno avvertito per la prima volta la possibilità di assumere il controllo di un paese, facendone un satellite di Teheran. L’Iraq è così divenuto teatro del conflitto tra due macro-assi, quello sciita iraniano e quello sunnita saudita.

Il fronte sunnita appare però diviso, sia negli obiettivi che negli strumenti.

I sunniti sono profondamente divisi al loro interno in categorie politiche e militari che hanno approcci opposti verso il governo sciita. Possiamo individuare due grandi categorie. La prima è quella che da subito ha partecipato al processo politico, convinta di poter combattere la propria marginalizzazione attraverso strumenti pacifici, ovvero le elezioni a cui hanno preso parte sia nel 2005 che nel 2010. La seconda ha optato per la resistenza armata.

All’interno di questo secondo gruppo esistono delle sottocategorie. Primo, i fedelissimi di Saddam Hussein (generali, funzionari militari, poliziotti, membri dei servizi segreti, membri del partito Baath) che combattono per riprendersi il potere politico. Secondo, gruppi salafiti e jihadisti – alcuni dei quali formatisi dentro al Qaeda – molto brutali con ramificazioni in tutte le aree sunnite e responsabili di attentati sia contro gli americani che contro civili sciiti: il loro obiettivo è la creazione di uno Stato islamico sunnita, scopo condiviso con l’Isis in cui molti sono entrati. Terzo, le tribù sunnite e le loro milizie armate, che portano avanti un’agenda islamista e nazionalista.

Durante l’occupazione Usa, Washington ha apertamente sostenuto la formazione di un governo a maggioranza sunnita, seppure questo avrebbe condotto a una maggiore influenza iraniana su Baghdad a scapito di quella saudita. Quale la ragione di tale strategia?

Il sostegno Usa alla maggioranza sciita era una questione di vecchia data, sorta già dieci anni prima: nel 1991, durante la prima guerra del Golfo, gli sciiti iracheni si sollevarono approfittando del conflitto in Kuwait, ma in quell’occasione la Casa Bianca non mosse un dito su pressione dei paesi sunniti. Nel 2003 la questione si è riproposta e stavolta Washington ha agito diversamente. Perché? Prima di tutto, l’amministrazione Bush agì sulla spinta dell’11 settembre. I neocons ritenevano che il terrorismo islamico fosse per lo più di origine sunnita e guardavano agli sciiti come a una comunità più laica e moderata. Nacque la necessità di sostenere gli sciiti per riequilibrare i poteri regionali. L’altra ragione va cercata nella volontà Usa di mantenere un certo livello di caos nella regione, una divisione tra etnie e religioni per garantire l’esistenza dello Stato di Israele. Fin dalla sua creazione lo Stato ebraico ha avuto bisogno di una condizione per prosperare: la divisione del Medio Oriente in entità piccole e separate tra loro, in Iraq, Siria, Libano. Lo stesso progetto sionista è nato come strumento di disgregazione: meglio un mondo arabo diviso, frazionato, tanti piccoli e deboli regimi etnici, piuttosto che grandi Stati, potenti e stabili a livello economico e militare. Oggi questa disintegrazione della regione è palpabile e sembra rientrare nello scacchiere mediorientale immaginato da Joe Biden per la spartizione dell’Iraq in tre entità confederate – sciita, curda e sunnita – sotto un’unica bandiera, quella irachena. Un’idea molto naif se non maliziosa: oggi l’Iraq è già diviso in tre parti e sarà impossibile riunificarlo. Quello di cui gli Usa stanno parlando è l’accettazione dello status quo nato dalla realtà dei fatti e dalla loro stessa strategia: l’invasione del paese è stata il primo passo verso la spartizione settaria. E oggi il sostegno ai soli kurdi ne è ulteriore prova.

Il premier designato al-Abadi riuscirà nell’impresa di formare un nuovo governo di unità nazionale?

Credo che al-Abadi formerà un nuovo governo ma non risolverà la questione. Sono tanti i dubbi sulla reale capacità del nuovo premier di gestire un Iraq unito. Ogni gruppo oggi guarda alle proprie necessità e alla propria protezione, piuttosto che pensare ai bisogni di una realtà più ampia e complessa. Ognuno combatte per la propria sopravvivenza. Gli sciiti stanno combattendo contro Isis e sunniti, per proteggere se stessi e i confini con l’Iran. Il problema è che la ridefinizione del paese, la sua rimappatura, sarà un processo lungo e bagnato di sangue. E questo preoccupa tutti: sciiti e sunniti sono consapevoli che l’unità è solo un ricordo ma sanno anche che ridisegnare la mappa del paese richiederà tempo e violenze.

Da parte loro i sunniti sono confusi e divisi al loro interno: potrebbero liberarsi del ’giogo’ sciita e iraniano per finire nelle brutali mani dell’Isis. Sfuggiranno al controllo di Teheran per cadere in quello di un gruppo formato da miliziani provenienti da ogni parte del mondo. L’Isis li sta umiliando, per questo chiedono a gran voce l’aiuto della comunità internazionale. Nei messaggi inviati dai leader delle tribù sunnite in questi giorni si legge la volontà ad accettare qualsiasi compromesso pur di liberarsi dalla morsa dell’Isis.

Alla fine quindi la comunità sunnita sarà in grado di sollevarsi contro l’Isis?

Mai i sunniti iracheni accetteranno di vivere sotto un califfato islamico, con una simile brutale applicazione della Shari’a. L’Isis, però, ha dalla sua la forza di una leadership unita, quando la comunità sunnita irachena è profondamente divisa al suo interno in fazioni, tribù, partiti che hanno perso il contatto con la gente. C’è un elemento che però potrebbe modificare il balletto delle alleanze: a differenza della Siria, dove i jihadisti combattono con violenza le altre opposizioni ad Assad, in Iraq hanno compreso quanto le tribù siano radicate. È possibile che nelle prossime settimane l’Isis perderà città e comunità a favore dei peshmerga e dell’esercito iracheno e avrà quindi bisogno dei leader tribali. Se si comporterà con i sunniti come fa in Siria, si troverà di fronte una vera resistenza, altrimenti potrebbe ottenerne l’appoggio. Dall’altra parte sta il governo iracheno: resterà da vedere se il nuovo esecutivo lavorerà davvero per riassorbire la comunità sunnita attraverso la ricostruzione delle città e le aree distrutte e la fine della discriminazione politica.