È la malattia della vecchiaia che fa più paura quando non la si ha, perché poi tutto si annebbia, anche la consapevolezza. L’Alzheimer è un male cattivo che fa traballare ogni cosa, confonde i ricordi, gli affetti, l’identità propria e altrui, le relazioni, tutto ciò che si è costruito. Ma mentre la mente se ne va, che cosa sente quel corpo? Quei muscoli, quella carne, quell’insieme di ossa provano ancora emozioni? Sanno ancora che cos’è un desiderio?
Il film documentario Une jeune fille de 90 ans, diretto da Valeria Bruni Tedeschi e Yann Coridian, ha il coraggio di farsi queste domande e va a cercare le risposte in un modo molto speciale, con l’arte.

 

 

Presentato a Locarno e al recente Filmmaker Festival a Milano, sarà al cinema Oberdan di Milano dal 25 dicembre all’8 gennaio e sarebbe un vero peccato perderlo.
Due cineprese entrano nel reparto geriatrico dell’ospedale Charles Foix d’Ivry, vicino a Parigi, e con discrezione filmano quel decadimento fisico e psichico che molte famiglie, per necessità o scelta, allontanano dalla propria quotidianità per affidarlo alle cure professionali di infermieri e medici. Per quanto sia bella la struttura e bravi gli operatori, è difficile trovare allegro un reparto geriatrico o una casa di cura per anziani.
L’impressione che si ha vedendo file di carrozzelle, corpi rattrappiti, sguardi persi uno accanto all’altro è di vite che si trascinano faticosamente verso la fine. Anche a Foix d’Ivry è così, eppure a un certo punto succede qualcosa.

 

 

Succede che fra gli anziani arriva un danzatore. Ha tratti vagamente orientali, i capelli un po’ brizzolati, lo sguardo avvolgente, un sorriso da bambino, il corpo flessuoso. Dice solo il suo nome, Thierry, poi entra nella sala comune, mette musica, soprattutto canzoni d’amore, e invita a ballare gli ospiti. In tutti suscita qualcosa, un ricordo, un sorriso, un racconto. Non è mai stucchevole, né pietoso, né caritatevole, è semplicemente lui con la sua curiosità sincera per gli umani Fra tutti c’è una signora che risponde più di altri. Si chiama Blanche, ha vissuto anni intensi nella Parigi degli artisti e ora è un mucchietto di ossa spiegazzate, i capelli corti e per aria, i movimenti rigidi. Ma il suo sguardo e il sorriso sono così aperti, così disponibili che sembrano ancora quelli di una bambina che scopre meraviglie per la prima volta.
A poco a poco, durante i sei giorni di incontri (tanto sono durate le riprese) Thierry e Blanche intrecciano una danza di movimenti lenti, lunghi, sensuali, di contatti, sguardi e abbracci che rendono il corpo di Blanche sempre più fiducioso e flessuoso.

 

 

 

 

Quando lui se ne va, lei è raggiante, quando lo vede arrivare si illumina, quando lui propone a tutti una danza è lei a farsi avanti per prima, fino al giorno in cui, riaccompagnandola in camera, mentre lei si siede lo guarda e gli sussurra: «Je t’aime».
Tutto è filmato con discrezione, senza concedere nulla al pietismo e lasciando intatta la dignità delle persone. Merito dei registi che hanno filmato senza nascondere le cineprese, creando così un rapporto di sincerità e parità.

 

 

 

E poi c’è lui, il danzatore deus ex machina, Thierry Thieû Niang. Non è un terapeuta, ma un celebre coreografo che ha lavorato con Patrice Chéreau, che nei suoi spettacoli cerca sempre l’empatia con il pubblico, che coinvolge nei suoi progetti artisti di diverse discipline, ma anche bambini, adolescenti, anziani, detenuti, autistici.
Quello che Thierry, Blanche e il film ci raccontano è l’infinito potenziale della vita e dei corpi, anche se vecchi e malandati, anche se con l’Alzheimer, anche se soli. E’ come se dicesse a ognuno di noi: siate vivi finché siete vivi.