C’è una ragazza, i capelli le danzano sul corpo mentre costruisce il suo nido nella foresta, un cerchio di rami e di foglie che la proteggerà dalla guerra e dai nazisti. Nel bosco questa ragazza selvaggia – che poi sono due, sempre la stessa ma sdoppiata- incontra un uomo, come lei ebreo, come lei in fuga, che l’aiuterà per il cibo, entrerà nel nido, approfitterà del suo sguardo stupefatto sul mondo,ma sarà anche un abbraccio caldo contro l’oscurità e la pioggia. I combattimenti rimangono una colonna sonora frastornante, finché quando scende il silenzio, la ragazza finalmente si alza, e corre via; da Cernivsci, la città dove è nata, insieme a altri sopravvissuti dai campi di sterminio, a altre donne, aspetta davanti al mare di partire per un’altra terra.

Non è la prima volta che Amos Gitai parla dell’Olocausto, nei suoi film anzi i legami con l’Europa, e con la cultura ebraica degli anni precedenti al conflitto sono un nodo centrale per confrontarsi con Israele oggi, con la guerra, con una politica e una società che quella cultura ha rimosso dalla sua origine. E invece Tsili è parlato in yiddish, e un assolo di violino klezmer scorre sui visi dei bimbi fotografati prima della deportazione. Gitai, che questa sera sarà a Milano per presentare il suo film precedente, Ana Arabia (21.30, cinema Beltrade), si è ispirato al romanzo antirealista di Aharon Appelfeld, Paesaggio con bambina (Guanda) in cui l’autore racconta la propria esperienza durante la guerra sottraendola, come dice lui stesso, alla «morsa della memoria per ricondurla alla sfera della creatività». E lo stesso fa il regista israeliano privando il racconto della guerra di ogni contestualizzazione – almeno fino agli archivi che vediamo nel finale – e soprattutto di qualsiasi retorica per restituirne l’essenza, il sentimento postumano di sopravvivenza. Tsili – coprodotto per l’Italia dalla Citrullo e distribuito da microcinena attraversa la soglia del regno animale, vi ritorna, si immerge nella foresta dove i personaggi non saranno mai filmati in piedi. Come gli altri animali si inseguono, si fiutano, cercano di resistere. L’essenziale del gesto è una performance di dolore e di emozionalità, sono i movimenti impercettibili che confondono la figura umana con le foglie, l’erba, la pioggia.
Con Gitai – che stasera sarà a Milano, al cinema Beltrade, per presentare il suo film precedente, Ana Arabia – ci siamo incontrati a Venezia dove Tsili è passato fuori concorso. Nel futuro ha già un nuovo film sulla morte di Rabin, il premier israeliano assassinato vent’anni fa. «È stato il primo uomo politico israeliano a riconoscere che Israele ha cacciato nel 1948 i palestinesi dalle loro terre. Ha fatto quello che deve fare un vero leader politico: parlare al suo popolo senza mentire».

Perché un film sull’Olocausto proprio ora?

L’Olocausto è uno dei temi più strumentalizzati dalla politica contemporanea e non solo in Israele. Mi sembrava per questo necessario parlarne in una prospettiva diversa, lontana da quelle in cui è stato utilizzato finora, ad esempio per giustificare gli interventi militari, cosa di cui non abbiamo alcun diritto. Ho scelto come punto di partenza l’opera di uno scrittore che si può avvicinare a Primo Levi per il modo in cui nell’affrontare la Shoah rimane vicino ai destini delle persone, rifiutando in modo netto qualsiasi forma di speculazione politica.

Nel finale hai introdotto delle immagini di archivio. Sono scene di vita quotidiana, volti di bambini negli anni prima della seconda guerra mondiale. Qual è la loro funzione?

Le ho trovate grazie all’Istituto di cultura yiddish di New York, sono immagini girate nell’Europa centrale prima dell’invasione tedesca. Mentre le guardavo mi chiedevo cosa sarà accaduto a quei ragazzini, e a tutte le persone che da tanti paesi sono state deportate nei campi di concentramento, a chi è sopravvissuto. Molto presto non avremo più nessuna testimonianza diretta dell’Olocausto, ciò che resta di quanto esisteva prima sono questi archivi, o la danza o il cinema.Questa considerazione rimanda a quanto continua a accadere in Israele, alla direzione che ha preso il Paese dopo la guerra, recidendo ogni legame con la cultura e col mondo che c’erano prima. Anche per questo ho voluto che il film fosse parlato in yiddish.

Tsili___

In una recente intervista al quotidiano francese «Libération», uscita in piena offensiva israeliana a Gaza, hai detto che la creazione di un Stato palestinese è ora molto difficile. In che senso?

I governi israeliani degli ultimi anni hanno promosso un insediamento massiccio di coloni in Cisgiordania. Faccio fatica a immaginare nella situazione attuale un leader israeliano che cacci dai territori quattrocentomila coloni. Il fatto è che i gruppi di pressione dei coloni sono attualmente al centro del potere, non costituiscono più una forza d’appoggio ma dettano gli orientamenti della politica. Stanno cercando di ridurre le libertà civili, vogliono imporre l’ebraico come unica lingua, la loro opera di erosione degli spazi di convivenza è costante. Appare chiaro che gli accordi di Oslo, tanto attaccati dagli israeliani, rimangono tuttora l’unica strada percorribile per arrivare alla fine del conflitto. Rabin aveva ragione e Ariel Sharon torto.

Credi davvero che dopo quanto è accaduto a Gaza in estate sia ancora possibile la pace?

Sono più che mai convinto che si deve trovare un modo per coesistere, e soprattutto che si deve interrompere l’uso mediatico fatto di questa guerra da tutte le parti. Sono molto critico nei confronti della politica israeliana, al tempo stesso però non mi piacciono i paragoni che sento fare tra Israele e l’essere ebrei. Per andare avanti bisogna uscire dalla folle contrapposizione tra l’angelico e il demoniaco nella rappresentazione di una o dell’altra parte. Questo è il nutrimento principale dell’integralismo, e finché si continuerà a manipolare la scena politica il processo di pace sarà lontano. L’unica possibilità è la comprensione dell’altro, la scoperta della ricchezza umana: questa è la vera bomba contro ogni nazionalismo.

La seconda guerra nelle immagini di «Tsili» rimane fuori campo, è resa dai rumori delle bombe, degli spari, degli aerei in volo. Ci sono due donne, che sembrano una sola, e un uomo, in un bosco.

Ci sono molte storie di donne che sopravvissute a Auschwitz si sono suicidate una volta uscite. Molte erano state deportate molto giovani, e nelle loro esistenze si è formato un buco. Il romanzo di Appelfeld si basa sull’esperienza personale del suo autore. La scelta di sdoppiare la protagonista, in due donne, due diverse attrici (Sarah Adler e Meshi Olinski) a cui si aggiunge la voce di Lea Koenig, è venuta per colmare la mancanza di biografia della ragazza presente nel testo originale. Al di là di questo volevo rompere anche i codici narrativi abituali con cui si rappresenta la vita nella guerra. La gente parla, fa molte cose. Invece nelle zone di guerra prevale la necessità di sopravvivenza, il sesso, il cibo, qualsiasi descrizione poetica è falsa. Volevo anche «spogliare» l’immagine del superfluo, lavorando su un’idea di cinema «minimalista», basato su una performance, che si oppone al cinema inteso come gadget. In questo senso per me Tsili dialoga con i miei ultimi film, Lullaby for my Father, e Ana Arabia.