Alla notizia della morte di Vera Rubin, il pensiero di molti è volato a Stoccolma, e più precisamente all’Accademia Reale delle Scienze che ogni anno assegna il premio Nobel per la fisica. Lasciandoci all’età di 88 anni, l’astrofisica nata Vera Cooper nel 1928 (Rubin era il cognome del marito) aveva dato agli accademici svedesi tutto il tempo di assegnarle il premio. Se lo sarebbe meritato, poiché alla scienziata statunitense dobbiamo la scoperta della «materia oscura». Fu lei a fornire l’evidenza sperimentale che gli atomi che si studiano a scuola costituiscono solo una piccola parte del cosmo. Il resto, oltre l’80% della massa dell’universo, è fatto di una materia ancora sconosciuta.

VERA RUBIN lo scoprì nel corso degli anni Settanta, misurando la velocità con cui ruotano le stelle in un gran numero di galassie. Fino ad allora, si pensava che le galassie rispecchiassero, in grande, ciò che avviene nel nostro piccolo sistema solare. Si riteneva, cioè, che i corpi ruotassero seguendo le leggi della gravità come i pianeti intorno al Sole. In accordo con le leggi di Keplero, infatti, Mercurio «gira» con una velocità quasi doppia rispetto a quella terrestre e dieci volte più velocemente di Plutone. Se Plutone avesse la stessa velocità di Mercurio, sfuggirebbe all’attrazione del Sole e si perderebbe nello spazio.

Con Kent Ford, con cui collaborò durante tutta la carriera, Rubin osservò invece un fenomeno sorprendente: le stelle più lontane dal centro delle galassie si muovono circa alla stessa velocità di quelle più interne. A quella velocità, le stelle dovrebbero staccarsi dalla galassia, poiché la massa complessiva delle altre stelle (misurata sulla base della loro luminosità) genera una forza di gravità insufficiente a vincere la forza centrifuga. Eppure, le stelle continuano a girare in tondo, come se fossero legate da un filo invisibile.

PER SPIEGARE questo paradosso, Rubin ipotizzò che la massa delle galassie fosse circa dieci volte più grande di quella che si poteva osservare. E che la massa in più fosse costituita da una «materia oscura» invisibile ai nostri telescopi. Contemporaneamente e indipendentemente, anche il fisico francese Albert Bosma avanzò la stessa ipotesi nella sua tesi di dottorato.

Nel «Modello Standard», la teoria fisica che funziona benissimo nello spiegare il comportamento delle particelle ordinarie, questo tipo di materia non è previsto. La comunità scientifica lavora in diverse direzioni per modificarlo, con scarsissimi risultati dal punto di vista sperimentale. Nemmeno al Cern di Ginevra, nei laboratori dove le particelle raggiungono le energie più elevate, si sono trovati indizi sulla materia oscura. Eppure solo una piccolissima minoranza dei cosmologi attualmente pensa che le anomalie osservate da Rubin nella rotazione delle galassie possano spiegarsi altrimenti.

Molte osservazioni successive hanno confermato la sua teoria, con stime concordi sull’abbondanza della materia oscura nell’universo. Ormai, anche i modelli più accreditati per spiegare l’evoluzione dell’universo dopo il Big Bang si fondano sulla materia oscura. Eppure, essa sfugge agli strumenti attualmente utilizzati dai cosmologi, che si basano sulla ricezione di radiazione elettromagnetica di una qualche frequenza.

PER CONOSCERE davvero la materia oscura sarà dunque necessaria una rivoluzione anche sul piano sperimentale. Molte speranze in tal senso sono riposte nelle onde gravitazionali, che proprio all’inizio di quest’anno sono state rilevate direttamente per la prima volta. Tali onde sono generate dai moti di grandi quantità di massa, che alterando la gravità «increspano» lo spazio-tempo. Possono dunque rivelare la presenza di materia che non riusciamo a osservare per mezzo delle onde elettromagnetiche. Le prime onde gravitazionali, per esempio, sono state generate dalla fusione tra due buchi «neri», chiamati così perché anch’essi non emettono luce come la materia oscura (ma per motivi diversi, anche se inizialmente molti hanno supposto che la massa mancante di Rubin fosse spiegabile proprio con i buchi neri). Nuovi strumenti in grado di intercettare onde gravitazionali in quantità potrebbero permetterci di osservare la materia oscura con gli occhiali giusti.

LE RIVOLUZIONI, non solo quelle scientifiche, erano nel destino di Vera Rubin più di quanto lei stessa desiderasse. Lo studio della rotazione delle galassie, per esempio, doveva essere un tema di ripiego. A inizio carriera si era infatti dedicata alla distribuzione spaziale di stelle e galassie nell’universo, e anche in quell’ambito aveva fatto una scoperta clamorosa e controversa. Rubin rivelò che la materia non è distribuita in modo uniforme nello spazio e che il cosmo assomiglia piuttosto a un’enorme spugna, con zone più dense e grandi regioni vuote.

LE SUE OSSERVAZIONI inizialmente incontrarono diffidenze e alzate di spalle. Il tempo però le diede ragione anche su questo. L’esistenza di agglomerati di materia nel vuoto cosmico oggi non è più un’ipotesi teorica, ma un fatto scientifico accettato, con cui ogni nuova teoria cosmologica deve misurarsi. Rubin, che con quattro figli da crescere non amava competere in una comunità a schiacciante maggioranza maschile, nel frattempo aveva deciso di occuparsi delle stelle periferiche delle galassie rotanti, un settore in cui non avrebbe incontrato grande concorrenza. E come abbiamo visto fu una mossa azzeccata.

In quanto donna di scienza aveva già dimostrato l’abilità di spiazzare l’avversario. Sin da quando, nel 1965, aveva visitato il telescopio di Monte Palomar, nei dintorni di San Diego. In quegli anni, all’osservatorio erano ammessi solo scienziati di sesso maschile. Lei si presentò con una targhetta nuova per l’unica toilette a disposizione nel laboratorio.

RUBIN DIVENNE UN SIMBOLO della lotta per le pari opportunità in ambito scientifico. Tempestava di telefonate gli organizzatori delle conferenze a cui troppo poche donne avevano diritto di parola. Ma lei stessa si disse sconfitta, quando nel 2000, in un’intervista alla rivista Astronomy, ammise che le cose «non stanno cambiando, o cambiano troppo lentamente». Anche sul Nobel, perciò, non doveva avere troppe illusioni. Nei decenni, il nome di Vera Rubin è finito dietro a quello di altri rispettabilissimi scienziati, autori di scoperte più o meno clamorose nei campi più disparati della fisica, ma tutti accomunati dall’essere maschi. Solo due donne, Marie Curie e Maria Goeppert-Mayer, hanno vinto il premio, e l’ultima volta è successa nel lontano 1963. Come le sue amate stelle, anche Vera Rubin ha lottato contro chi voleva tenerla a bada. Ma nel suo caso le forze oscure si vedevano benissimo.

 

 

Una vita controcorrente

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Vera Cooper Rubin nacque a Philadelphia nel 1928 da una famiglia di ebrei immigrati negli Usa. Respinta dall’università di Princeton, chiusa alle donne fino al 1975, si laureò in quella di Cornell. Nel 1954 conseguì il dottorato sotto la direzione del russo Hans Gamow alla Georgetown University con una tesi sulla distribuzione delle galassie, che secondo Rubin non era uniforme come si ipotizzava. La necessità di badare ad una famiglia numerosa rallentò la sua carriera: solo nel 1965 ottenne una posizione stabile alla Carnegie Institution di Washington, dove iniziò a collaborare con il fisico sperimentale Kent Ford. Dopo una serie di osservazioni negli anni Settanta, Rubin e Ford ipotizzarono che la rotazione delle galassie sia influenzata da un tipo nuovo di materia, detta «materia oscura». Essa sarebbe dotata di massa ed eserciterebbe un’attrazione gravitazionale sulle stelle visibili. Ma non emettendo radiazione elettromagnetica, non sarebbe rilevabile con gli strumenti tradizionali. La sua ipotesi è tuttora quella più accreditata per spiegare l’evoluzione dell’universo dal Big Bang a oggi. Nonostante sia stata una scienziata di primissimo piano nel settore dell’astronomia, tuttora dominato dagli uomini, il suo nome è rimasto per lo più sconosciuto al grande pubblico.