Il movimento Occupy ha nuovamente riempito le strade di Hong Kong: centinaia di migliaia i manifestanti, che da giorni non mollano la presa delle strade e sul governo cittadino.

L’ultima novità è arrivata nel pomeriggio di ieri. Gli organizzatori delle manifestazioni hanno lanciato una sorta di ultimatum ai dirigenti locali: o il chief executive, il primo ministro di Hong Kong, Leung Chun-ying si dimette entro la mezzanotte di oggi, oppure si passerà ad una nuova fase della protesta: occupazione di edifici pubblici (esclusi ospedali e servizi per la popolazione) e scioperi ad oltranza. A tale proposito è necessario una precisazione.

Da giorni circola la notizia che tutto sommato proprio sulle dimissioni di Leung, si potrebbe arrivare ad un compromesso tra Pechino e i manifestanti. Potrebbe darsi, non è escluso, che sia stata proprio la Cina ad imbeccare il movimento, spingendolo a chiedere la testa di Leung. Del resto già in passato alcune soluzioni del genere erano state caldeggiate proprio da Pechino (basti pensare a quando Google si spostò a Hong Kong: poco dopo la decisione venne fuori che l’ipotesi ai manager, era stata suggerita proprio da Pechino).

In Cina c’è un concetto che potrebbe sembrare piuttosto bizzarro o di scarsa rilevanza a noi occidentali, ma per i cinesi è centrale, ovvero il mianzi, la faccia, l’onore: ai cinesi non piace «perdere la faccia», vista come un’onta che da individuale, si trasforma in certe circostanza in «nazionale». Per questo c’è da giurarci che Pechino stia cercando una soluzione che consenta di placare le proteste e uscire da questa difficile situazione in modo onorevole. Che tradotto significa, senza mollare il colpo politicamente.

La giornata di ieri ha visto nuove manifestazioni, pacifiche, controllate dai poliziotti locali. Sono stati eretti muri della democrazia, dove sono stati attaccatti foglietti, come nei giorni precedenti, con poesie, canzoni. A testimoniare la contemporaneità dei manifestanti, e ad indicare la giovane di età di molti di loro, è stato anche conclamato l’inno delle proteste, ovvero la canzone del film I miserabili (per chi ancora volesse rincorrere analogie inutili con il 1989, basti ricordare che sulla Tiananmen, i giovani cinesi cantavano l’Internazionale). Il coro è stato affiancato anche dal coro in cantonese «Tin Nou Yan Yun» un proverbio locale traducibile come «La colpa è dell’uomo se il cielo è arrabbiato». Il riferimento agli uomini è chiaramente rivolto a Leung e a Pechino.

La protesta infatti ha preso ormai una direzione ben precisa: come affermato dai leader, le dimissioni di Leung sono diventate prioritarie. Non a caso ieri molte foto diffuse su internet evidenziavano il numero «689», da qualcuno immediatamente associato al 4 giugno 1989. In realtà il riferimento è molto più preciso: Leung, infatti, è stato eletto proprio con 689 voti. L’utilizzo della cifra sui muri, su striscioni (e naturalmente sugli ombrelli), testimonia la critica della popolazione in piazza contro il metodo di elezione dei suoi rappresentanti.

Ieri la Bbc ha raccolto anche l’opinione dell’ex governatore britannico di Hong Kong Chris Patten, secondo il quale sarebbe necessario un nuovo periodo di «vera e propria consultazione politica». Lord Patten ha proseguito la sua lezioncina «democratica», senza ricordare quanto fatto dai britannici ad Hong Kong e quanto fatto soprattutto in Cina a cavallo tra ’800 e ’900 (in quello che Pechino considera ancora oggi il «secolo delle umiliazioni») sostenendo che «il dialogo deve sostituire lacrimogeni e spray al peperoncino», sottolineando la necessità per Pechino di mantenere gli impegni dati riguardo la liberaldemocrazia di Hong Kong.

E nel governo locale l’atmosfera non può che essere affranta. La sensazione è che le proteste potrebbero ancora durare a lungo. «È così sorprendente che riescano a organizzare una protesta così ordinata, pacifica e autodisciplinata», ha detto un funzionario al Financial Times. «La Cina continentale non potrebbe riuscirci. La gente non crede nella democrazia. Vogliono solo fare soldi o diventare funzionari».