Matteo Renzi lo cita continuamente come «riforma già fatta». Ma il Jobs act è tutt’altro che in vigore. E non lo sarà ancora per mesi. Trascinandosi dietro tutta una serie di misteri, intrigi, interrogativi che lasciano in bilico milioni di persone, primo fra i quali sicuramente quello su quando e come verranno ridotti i 46 contratti precari ora esistenti, domanda alla quale Renzi non ha mai risposto, promettendo solo «l’abolizione dei cococo (che nel settore privato non esistono più da anni, ndr) e dei cocopro».

Vero invece che alcuni suoi effetti – i più deleteri per i lavoratori – siano già realtà. Come dimostrano le sperticate lodi che Marchionne e tanti altri grandi e piccoli imprenditori riservano alla «rivoluzione» renziana.

Mutazione a indennizzo crescente
Per capire lo stato dell’arte la cosa migliore è seguire il mentore della riforma. Senza mai essere smentito, Pietro Ichino si è preso il merito di tutte le decisioni chiave prese dalla ideazione della riforma fino alla stesura dei testi dei primi due decreti legislativi. Diventando quindi una sorta di ministro del Lavoro ombra.

La più importante delle quali è certamente quella riguardante la trasformazione del «contratto a tutele crescenti». Lo strumento che nei piani iniziali di Renzi doveva «superare l’apartheid nel mondo del lavoro tra garantiti e giovani precari» – e che doveva essere inserita per molti già nel decreto Poletti dello scorso maggio – e che invece la perpetua ulteriormente togliendo l’articolo 18 solo per i neo assunti, e che dunque di «tutele crescenti» non né ha alcuna, facendo solo aumentare di due mesi l’anno l’indennità che l’imprenditore dovrà pagare in caso di licenziamento illegittimo. Il senatore di Scelta Civica infatti motiva la scelta – e dunque se ne prende il merito – di applicarlo solo ai neo assunti spiegando come se il nuovo contratto fosse stato esteso a tutti ci sarebbe stato il «rischio di una piccola esplosione di licenziamenti nella fascia dei lavoratori meno produttivi». Una motivazione che quindi sbugiarda il governo che con tutti i suoi rappresentanti a qualsiasi livello continua a sostenere come «i licenziamenti non saranno più facili».

Imprese per il contratto «unico»
Ma la conseguenza di questa scelta è presto detta: proprio perché con il nuovo contratto i licenziamenti sono più semplici, qualsiasi impresa sarà tentata di cambiare contratto ai propri dipendenti, applicando loro quello a tutele crescenti – che sostituisce il contratto a tempo indeterminato – potendoli dunque licenziare quando più aggrada.

La dimostrazione viene proprio da Federmeccanica: giusto venerdì il suo presidente – il moderato Fabio Storchi – ha proposto di «eliminare il doppio regime tra i nuovi e i vecchi assunti» chiedendo «coerenza perché tutti questi provvedimenti siano estesi a tutta la platea degli occupati». In una parola: libertà di licenziamento. Cosa che subiranno già tutti i lavoratori degli appalti: la prima volta che passeranno di “padrone” perderanno per sempre l’articolo 18, come denunciato dalla Filcams Cgil.

In più lo stesso Ichino sostiene che in caso di licenziamento «il costo per l’impresa sarà la metà o poco più» di quello previsto con due mesi di indennità l’anno: questo perché ogni lavoratore licenziato «opterà per la conciliazione standard, pari a una mensilità per anno di servizio, con un massimo di 18» in quanto «l’esito del giudizio» a cui si dovrà sottoporre per ottenere l’indennizzo «non è scontato» e perché in caso di conciliazione il governo ha previsto che questa sia «esente da imposizione fiscale». Un ennesimo favore alle imprese.

Due decreti su cinque (o più)
Il contratto a tutele crescenti è solo il primo dei decreti previsti. Il 24 dicembre il governo lo ha approvato insieme al secondo sugli ammortizzatori, uscito da palazzo Chigi con la dizione «salvo intese». In questo però – a parte le coperture per la sciarada di nuovi ammortizzatori a partire dal Naspi e al netto della balla sui 24 mesi di copertura: partirà da maggio, sarà di due anni solo se un precario ha lavorato consecutivamente negli ultimi quattro anni e dal 2017 il massimo di copertura calerà a 18 mesi – manca tutta la parte sulla riforma delle varie forme di cassa integrazione, che necessiteranno di un nuovo decreto, e che comunque ridurranno ulteriormente – la cig in deroga è già stata dimezzata, i contratti di solidarietà non sono stati rifinanziati e l’indennità è stata ridotta del 10 per cento – la durata degli ammortizzatori sociali per i milioni che il lavoro lo hanno già perso.

Mancano dunque la maggior parte dei decreti – tre o quattro almeno – come da delega: riforma dei servizi per il lavoro con la creazione dell’«Agenzia nazionale per l’occupazione», «disposizioni di semplificazioni e razionalizzazioni delle procedure a carico di cittadini e imprese», «un testo organico semplificato delle tipologie contrattuali e dei rapporti di lavoro», «sostegno alla maternità e paternità». Per tutti questi decreti i tempi previsti sono di mesi – il ministro Poletti parla di quattro – mentre il limite della delega è di «sei». E cioé di giugno. Con almeno un altro mese in più da conteggiare per la pubblicazione in Gazzetta ufficiale. Insomma, la riforma non sarà in vigore prima dell’estate.

Certezza ricorsi, rischio Corte
Il grande punto interrogativo futuro sul Jobs act riquarda poi il rischio di incostituzionalità del contratto a tutele crescenti. Per molti giuristi violerebbe l’articolo 3 delle costituzione – il principio di uguaglianza di per l’apartheid prodotta – e l’articolo 2106 del Codice civile che prescrive come le sanzioni in fatto di lavoro debbano essere proporzionate «all’infrazione». La Cgil poi è pronta – come già fatto per il decreto Poletti sul tempo determinato – a ricorre alla Corte di giustizia Europea in nome della «Tutela in caso di licenziamento ingiustificato» – l’articolo 30 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.

La «fretta» e il Parlamento
La battaglia riprende martedì. E Pietro Ichino è già lancia in resta. Un altro dei suoi cavalli di battaglia – il contratto di ricollocazione che consente alle agenzie interinali di incassare i voucher se riescono a trovare un lavoro a chi è stato licenziato – nel testo consegnato al parlamento mercoledì ha subito due modifiche. È stato spostato dal primo al secondo decreto perché «necessita di un parere della conferenza Stato-Regioni» ed è stato «manipolato» da «qualche dirigente ministeriale» che ne vuole limitare l’uso solo a chi «abbia subito un licenziamento per motivo oggettivo certificato da un giudice»: una «platea ristrettissima» rispetto alla miriade di licenziati che ci sarà.

Oltre a questo ripristino del testo originale, la parola d’ordine di Ichino – spalleggiato da Maurizio Sacconi che presiede la commissione lavoro al Senato – è una sola: fretta. Per loro le commissioni devono esprimere il parere «consultivo» – non vincolante – entro «la settimana». La fretta è dovuta alla richiesta di Confindustria: le imprese attendono l’entrata in vigore del contratto a tutele crescenti per poter assumere sfruttando gli sgravi fiscali – 100% di decontribuzione Inps per 3 anni, esclusione dalla base imponibile Irap riferita al costo del lavoro. Dopo un anno – e fino a tre – se licenzieranno le stesse persone assunte, ci avranno comunque guadagnato.

Mediazione in perdita
Di parere opposto è Cesare Damiano, che guida la commissione della Camera. Come presidente ha accettato subito di fare audizioni delle parti sociali – allungando i tempi- e chiede modifiche su almeno tre punti – «eliminazione dell’estensione delle norme ai contratti collettivi (vero colpo di mano nei decreti, ndr), ripristino del riferimento alle tipizzazioni dei contratti collettivi per le sanzioni conservative in caso di licenziamento disciplinare e innalzamento da 4 a 6 mesi dell’indennità minima in sostituzione della reintegra». Tutti punti che avvicinerebbero il testo alla mediazione uscita dalla direzione Pd del 29 setttembre scorso.

Peccato che da quel giorno le cose sono peggiorate – per i lavoratori. Ed è quasi certo che Renzi e il consiglio dei ministri a metà febbraio ignoreranno bellamente qualsiasi parere parlamentare. Come ormai da consolidata prassi governativa.