Terminate ieri sera le votazioni sugli articoli, martedì pomeriggio si concluderà il passaggio della modifica costituzionale al senato; è annunciato un solenne intervento in dichiarazione di voto del senatore a vita Giorgio Napolitano, regista della riforma dal Quirinale e, parola della ministra Boschi, vero padre del disegno di legge che riscrive l’intera seconda parte della Carta del ’48. Renzi ha già fatto il suo tweet: «Dicevano il governo non ha i numeri, visto com’è andata?».

È andata che nei voti segreti il governo non ha mai raggiunto la maggioranza assoluta (161 voti) che sarà indispensabile nel prossimo passaggio della riforma, oscillando tra un minimo di 142 (ieri pomeriggio) e un massimo di 160 (nel primo giorno di votazioni, la settimana scorsa). Ma grazie all’appoggio determinante dei senatori di Verdini, e almeno in un caso al soccorso di Forza Italia (sulla dichiarazione di stato di guerra), sono state respinte a voto palese tutte le proposte di modifica venute dalle opposizioni. Non solo le migliaia di emendamenti ostruzionistici, quasi tutti del leghista Calderoli, regolarmente saltati con l’ormai noto trucco del «canguro». Gli unici emendamenti approvati sono stati quelli sostenuti dal governo e frutto della mediazione nel Pd – articoli 1, 2, 37 e 39 – o dell’iniziativa dell’esecutivo – articoli 30 e 38 del disegno di legge. Dunque il prossimo passaggio alla camera sarà assai rapido, si tratterà di votare solo sei articoli. E da martedì cominceranno a decorrere i tre mesi della «pausa di riflessione» prevista dalla procedura di revisione costituzionale. Il che porta a concludere che il via libera del parlamento può arrivare a marzo dell’anno prossimo e il referendum confermativo si potrà fare nell’ottobre 2016.

Anche ieri al governo sono riusciti un paio di capolavori al rovescio. Il primo sull’elezione dei giudici costituzionali. Dopo avere recuperato il principio secondo il quale sarà il senato a eleggerne due, separatamente dalla camera (unico emendamento approvato anche dalle opposizioni), qualcuno si è accorto che la legge costituzionale del 1967 prevede che l’elezione dei giudici di competenza del parlamento avvenga in seduta comune. La ministra Boschi è stata costretta a proporre un emendamento all’articolo 38 per cambiare la legge costituzionale. Così la nuova Costituzione somiglierà ancora di più a un regolamento di faticosa lettura, perché piena di rinvii ad altre leggi. E così i senatori che immaginavano di concludere velocemente la seduta sono stati costretti a fermarsi anche ieri pomeriggio.

Nel pomeriggio è stata la vota della disposizioni transitorie, l’articolo 39 che essendo stato scritto prima della mediazione tra Renzi e la minoranza Pd – quella che ha legato la scelta dei senatori da parte dei consigli regionali al risultato delle elezioni regionali – continua ad affidare tutto il potere di nomina ai soli consigli regionali. Tra l’altro in un comma non più modificabile per il tante volte richiamato principio della «doppia lettura conforme». La soluzione escogitata dal governo, e accettata dalla minoranza Pd, è passata attraverso un emendamento a un comma successivo dell’articolo 39. Con il risultato che adesso la stessa disposizione transitoria prevede due termini diversi perché il parlamento prima e le regioni poi approvino le leggi elettorali regionali, nelle quali restituire una parte del potere di scelta dei senatori ai cittadini elettori. Se avesse applicato i criteri con i quali ha respinto tutti gli emendamenti all’articolo 2, il presidente del senato Grasso avrebbe dovuto considerare inaccettabile anche la proposta emendativa del governo. Così non è stato, e quando le opposizioni hanno fatto notare che si stava mettendo in Costituzione una regola incomprensibile e ambigua, il presidente ha risposto che «questo è lasciato all’interpretazione di coloro che dovranno poi applicarla».

Le regioni, evidentemente, seguiranno ognuna la sua strada; neanche sui tempi può esserci garanzia. Ma anche considerando l’ipotesi più vicina ai desideri del governo, con le prossime elezioni per la camera dei deputati nel febbraio 2018, nel primo senato «delle autonomie» potranno sedere non più di 28 senatori indicati dai cittadini, cioè quelli di cinque regioni soltanto. Tutti gli altri potranno essere eletti successivamente, in sei successive tornate, dall’autunno del 2018 all’autunno del 2022. Nel frattempo a palazzo Madama siederanno, assai più larghi dei 321 senatori di oggi, e andranno gradualmente sostituiti, cento senatori scelti quasi tutti dai gruppi regionali dei partiti, indipendentemente da qualsiasi indicazione degli elettori.

È un problema di tempi che neanche l’impegno della ministra Boschi in aula – «faremo la legge elettorale quadro entro questa legislatura» – può risolvere. Ma che anzi può solo aggravarsi, se questo parlamento dovesse essere sciolto prima della scadenza naturale. Come nella tradizione del Comintern, è toccato al senatore della minoranza Pd Vannino Chiti, spina nel fianco di Renzi fino a una settimana fa, difendere in aula questa soluzione e tutta la riforma costituzionale, in pesante polemica «da compagno a compagno» con il gruppo di Sel. Mentre il senatore Calderoli annunciava perfido l’intenzione di leggere gli sms ricevuti nelle settimane passate da tutti i critici della riforma. Vuole farlo martedì. Subito prima della benedizione di Napolitano alla nuova Costituzione.