La pistola, anzi il bazooka com’è stato chiamato sei mesi fa il Quantitative easing (Qe) deciso dalla Banca centrale europea, è sul tavolo. Ma l’Eurotower non spara un altro colpo, non adesso. Nessuna nuova misura di allentamento monetario, se si eccettua l’innalzamento del limite di acquisto di titoli di stato (è così che si realizza in concreto l’espansione monetaria, immettendo liquidità nel sistema) che passa dal 25% al 33% del totale dell’emissione, però solo in via teorica e dopo una verifica «caso per caso». Eppure Mario Draghi, in conferenza stampa, chiarisce: «Non ci sono limiti particolari alla possibilità della Bce di potenziare la propria politica economica. Il cambiamento di uno dei parametri del Qe è un segnale». Per il resto il programma «continua a procedere senza intoppi» il che significa, garantisce il governatore, che «noi attueremo in pieno i nostri acquisti mensili da 60 miliardi di euro fino alla fine del settembre 2016 o oltre, se necessario».

Il problema è che, trascorsi sei mesi, l’impatto del Qe, il colpo di bazooka, è assai limitato. Tant’è che il board della Banca centrale europea (che ieri si è riunito per la prima volta dopo le ferie) ha dovuto rivedere al ribasso sia le stime di crescita dell’Eurozona che quelle dell’inflazione. Il Pil complessivo nei paesi dell’euro, secondo Francoforte, salirà nel 2015 del 1,4% e non più del 1,5% mentre la dinamica dei prezzi resterà sostanzialmente vicina allo zero, +0,1% per il 2015 invece che il +0,3% previsto (nei primi mesi dell’anno era ancora negativa). Nemmeno nel 2017 l’inflazione si avvicinerà al 2% che è l’obiettivo dichiarato della Bce, la ragione ufficiale che sostiene l’operazione Qe: i prezzi dovrebbero crescere di +1,7% invece che +1,8% come previsto sei mesi fa.

La ripresa, in sintesi, non si vede, e chi la intravede deve ammettere che è assai più gracile del previsto. «I rischi per le prospettive di crescita dell’area euro rimangono orientati verso il basso, riflettendo in particolare le incertezze legate a fattori esterni», ha detto ieri Draghi. Aggiungendo che «i recenti sviluppi nelle economie emergenti possono potenzialmente influenzare ulteriormente la crescita globale in modo negativo». Va male, potrebbe andar peggio. L’economia «emergente» è (ancora) quella cinese, il cui rallentamento «pesa sulla crescita mondiale e sulla domanda estera delle esportazioni da area euro». Servirebbe allora un mercato interno più dinamico, ragiona il governatore della Banca centrale europea: «La domanda interna dovrebbe essere ulteriormente sostenuta dalle misure di politica monetaria e dal loro impatto favorevole sulle condizioni finanziarie»: Dovrebbe, qui sta il punto. Non va così.

La maggiore liquidità che da sei mesi la Bce pompa nel sistema, acquistando titoli di stato sul mercato secondario (dagli istituti di credito) si sta fermando sul tetto, al livello delle banche. Non scende al piano delle imprese e delle famiglie. Che non chiedono oppure non ricevono credito perché le condizioni dell’economia reale non spingono a rischiare, e nemmeno a comprare. Tant’è che Draghi deve affidarsi al calo del prezzo del petrolio che «dovrebbe sostenere il reddito delle famiglie e delle imprese e di conseguenza i consumi privati e gli investimenti». Ma è proprio il calo del petrolio che tiene bassa l’inflazione, allontanando così l’obiettivo del Qe.
Servirebbero politiche di bilancio al livello dei singoli stati, ma quelle sono congelate dal patto di stabilità europeo, che Draghi e più di lui il board della Banca centrale non intendono discutere: «L’attuazione piena e coerente del patto è cruciale per la fiducia nella nostra cornice di bilancio». Il messaggio – «piena e coerente» – vale anche per il governo italiano che in questi giorni sta costruendo la manovra sperando in ulteriori margini di «flessibilità». Nella cornice dell’austerità, la politica monetaria non può fare altro. Il denaro ormai è praticamente gratis, la Bce non ha toccato il tasso inchiodato al minimo storico dello 0.05%. Ma il cavallo non beve.