Ogni anno si diplomano in arti visive migliaia di studenti, che determinano la proficua esistenza di nuovi master, università ormai più società per azioni che atenèi, nelle quali ogni eventuale scopo educativo è sostituito con il bilancio di fine anno. Gli studenti comprano un’istruzione impossibile da cristallizzare, se non attraverso una necessaria decisione autonoma, quella dell’autodidatta, che consenta, soprattutto, di costruire una comunità di esseri umani che sappiano leggere, essere parte di un’opera.
Come scrive Fred Ritchin, Gil Scott Henron aveva ragione: «la rivoluzione non passerà in televisione (possiamo aggiornare la parola televisione con qualsiasi dipendenza sociale più contemporanea), ma è già nelle nostre teste», nei nostri corpi. La coscienza dello spettatore più o meno consapevole, rileva il desiderio di un dibattito costante tra potere, ideologia, violenza dell’immagine. E allora la funzione culturale della fotografia può e deve avere una dimensione etica? Qualche anno fa la Settima Biennale di Architettura diretta da Massimiliano Fuksas, titolava Less aesthetics, more ethics, non una domanda, ma un’affermazione-manifesto. Ne L’uomo senza contenuto, Agamben scrive «forse nulla è più urgente – se vogliamo veramente porre il problema dell’arte nel nostro tempo – di una distruzione dell’estetica»; più di recente François Cheval sottolinea quanto lo statuto di fotografo sia per lo meno incerto (artista, autore, precario?), e a proposito degli innumerevoli, qualche volta speculativi e superficiali festival di fotografia, quanto sia sempre più «necessario che lo spazio della rappresentazione possa affermarsi non come un luogo di ammirazione, ma come la possibilità di uno spazio di dialogo, una nuova articolazione tra lo spettatore e la fotografia».
Etica e Fotografia a cura di Raffaella Perna e Ilaria Schiaffini – pubblicato per DeriveApprodi (pp. 148, euro 16) – ci invita proprio all’interdisciplinarità con Andrea Cortellessa, Antonello Frongia, Adolfo Mignemi, Lucia Miodini, Federica Muzzarelli, Raffaella Perna, Antonella Ricci, Ilaria Schiaffini, Michele Smargiassi. I contributi «si orientano sull’emergenza di questioni etiche attorno a singoli temi, del presente e del passato», come scrive Schiaffini.

Ricercatori, critici, giornalisti indagano l’uso del dispositivo fotografico negli studi antropologici, nelle questioni dell’identità dei corpi delle donne, anzi dei corpi più corpi di tutti, quelli delle donne di Auschwitz-Birkenau, immagini malgrado tutto, come le chiamava Didi-Huberman, quelle immagini che sono «uno straccio di verità: ciò che resta visivamente di Auschwitz», rubate con mezzi rudimentali, pellicole portate fuori dal campo di concentramento in un tubetto di dentifricio. La necessità etica di fotografare e poi chiudere le fotografie in una valigia per non riaprirla più, come fece l’ex modella di Man Ray, Lee Miller. Oppure l’assenza di una specifica fotografia ci costringe a costruire nella nostra mente il corpo rifiutato e rimosso di Ida Irene Dalser – prima moglie misconosciuta di Benito Mussolini, ospedalizzata in manicomio – e il suo volto di non-malata censurato, fatto sparire anche, soprattutto, dalle fotografie, perché se è vero che la fotografia è manipolabile, impercettibilmente è capace di registrare verità laddove è necessaria la menzogna. «La fotografia faceva paura. La storia con la «s» minuscola doveva sparire, scrive Muzzarelli.

Fotografare in prigionia è quasi impossibile, ma è accaduto in diverse circostanze e non solo per opera dei torturatori (Abu Ghraib). Le immagini di prigionieri e profughi, dalla Guerra di Secessione al secondo conflitto mondiale, analizzate da Mignemi, ricordano le fotografie dell’ufficiale Lido Saltamartini, catturato dagli inglesi, che testimoniò la sua condizione costruendo una macchina fotografica rudimentale «servendosi di materiale di recupero»; il tenente Vittorio Vialli riuscirà a scattare oltre 450 fotografie nei campi di prigionia nei quali è detenuto.

Insomma, imparare a distinguere la manipolazione del contenuto dell’immagine dall’uso è una lezione che risale agli anni Trenta e perdura per tutto il Novecento, fino alla più diffusa e nota fotografia di reportage degli anni Settanta, di cui si occupa Perna. La funzione culturale della fotografia ha una dimensione critica che può e deve superare «la costitutiva laconicità della fotografia»; decifrarla è un’operazione piuttosto ambigua, una lotta contro l’opacità dell’immagine, e spesso lo scopo di ristabilire una comprensione tra l’uomo e la natura, l’uomo e l’uomo, implica che si possa giustificare una fotografia come puro oggetto, laddove in realtà è sempre sottesa la questione – anche attraverso la neutralità – della sua potenza politica e sociale. Ce lo ricorda Frongia, «come ogni ortografia, la scrittura fotografica è allo stesso tempo testo e sintomo». Il libro si chiude con il saggio di Andrea Cortellessa che ricostruisce il pensiero fotografico sotteso all’opera letteraria di Giorgio Falco e si dedica anche a Condominio Oltremare (lo cito nonostante, in parte, mi riguardi). Cortellessa apre interessanti e non ancora indagati aspetti interdisciplinari. Da molti anni cura una collana fuoriformato, seleziona libri che definisce «insubordinati e che nella letteratura internazionale è invalso definire iconotesti». Così l’autore realizza in letteratura il sogno di Jasper Johns, testo e fotografia si corteggiano in uno spazio chiamato linguaggio.