Da alcuni decenni sono tornate a vedersi, prima nelle grandi città arabe e musulmane, poi anche in quelle europee e occidentali, donne velate come prima si potevano incontrare solo negli angoli più emarginati delle zone rurali.

Anche l’estensione della copertura a cui viene sottoposto il loro corpo, dal chador al niqab, al burka, per finire ai guanti, per impedire ogni possibile contatto con mani estranee, è andata crescendo – ben al di là di quanto possa essere ricondotto anche alla più rigida delle tradizioni – come segno della progressione di un riconquistato dominio dell’uomo sul popolo delle donne; un dominio che i contatti con la cultura occidentale, soprattutto dopo l’esplosione del femminismo negli anni ’70, stavano erodendo poco per volta.

Non era difficile riconoscere in questa inversione di tendenza il segno esteriore della rivalsa di una popolazione maschile, di fronte alla constatazione che né la decolonizzazione dei loro paesi, né la strada di un socialismo sui generis, in gran parte di impronta sovietica, né quella del nazionalismo arabo, e nemmeno quella dell’emigrazione in Europa avevano raggiunto i risultati promessi in termini di emancipazione, di diritti, di benessere.

La strada sbarrata dello sviluppo umano in tanti paesi ex coloniali e in tante comunità immigrate e discriminate stava spingendo, una dietro l’altra, le popolazioni che continuavano a subire il predominio della «civiltà» bianca occidentale a compensare questa loro subalternità imponendo alla «loro» altra metà del cielo, e in forme ben più visibili che non in passato, una subalternità altrettanto se non anche più spietata.

L’origine di questo cambio di rotta è di per sé sufficiente a spiegare, anche se non in modo esaustivo, la condivisione o l’accettazione di questa imposizione da parte di molte donne che indossano con orgoglio questi segni della loro subordinazione come manifestazione del rifiuto di tutto ciò che la «civiltà» occidentale ha cercato di imporre anche a loro.
Il fondamentalismo radicale ha poi fatto di questa riconquista dell’uomo sulla donna il centro della propria ideologia, della propria prassi (fino a giustificare lo stupro e la schiavitù delle donne estranee alle proprie comunità) e anche del richiamo nei confronti di giovani maschi alla ricerca di avventure. Per questo è già stato rilevato più volte che l’arma principale che può disgregare questa vera e propria minaccia per l’umanità, sia quando assume le forme e la consistenza di uno Stato, di un esercito, di una comunità chiusa, sia quando si manifesta nel moltiplicarsi delle iniziative stragiste in tutto il resto del mondo, non può che essere la decisione delle donne di queste comunità di riprendere in mano il loro destino; ovviamente nelle forme che loro stesse decidono di adottare, anche in considerazione dei pesanti vincoli a cui sono sottoposte, e che non coincidono necessariamente con quelle che molti di noi desidererebbero.

Certamente l’esempio che viene dalle aree liberate della Siria curda come il Rojava, e che non si limita solo alla partecipazione delle donne alla guerra di liberazione, ma investe tutti gli ambiti della vita associata, è quello che a noi risulta più chiaro ed efficace. Ma non è detto che sia il solo e che altre strade non possano essere percorse, senza pretendere che il primo passo in questa direzione sia quello di «togliersi il velo».

Ma che ne è dalle nostre parti? Quelle dell’uomo bianco occidentale? Tanto è facile – o sembra – fare l’antropologia delle altrui culture quanto è difficile riconoscere nella nostra i segni vistosi di processi analoghi, che pure sono sotto gli occhi di tutti. Così, prima ancora di individuarvi una manifestazione del rancore della popolazione bianca declassata dalla globalizzazione contro le rispettive élite, ci si dovrebbe chiedere se l’elezione di Donald Trump alla presidenza degli Stati Uniti, come l’«irresistibile» avanzata di tanti movimenti xenofobi e di destra nei paesi dell’Unione Europea, non siano innanzitutto manifestazioni di una rimonta di maschilismo, non nelle forme bigotte e cupe imposte dal fondamentalismo islamico, ma in quelle volgari, sboccate e persino pornografiche che da tempo covano sotto la coltre del cosiddetto «politicamente corretto».

Spiegare la vittoria di Trump o l’avanzata delle destre xenofobe solo come una scelta di classi e ceti «dimenticati» urta innanzitutto con il dato, appurato, che a votare per entrambi non sono solo né principalmente i poveri e i declassati; e che anzi, come nella più classica delle analisi sociali, le adesioni ai loro programmi o, meglio, ai loro slogan, cresce col crescere del reddito e della posizione sociale – non con quello dell’istruzione – anche se sono certamente molto ampie tra le persone, qui soprattutto maschi bianchi, che sono vittime della globalizzazione e che rischiano di restare vittime di questa loro forma di ribellione.

Che l’adesione alle prospettive xenofobe e razziste di questi schieramenti abbia molto a che fare con un desiderio di rivalsa nei confronti delle «proprie» donne, e delle donne in generale, è evidente vedendo che la candidatura alla Casa Bianca di una donna ha creato molta diffidenza in tutti le componenti dell’elettorato statunitense, anche se Hillary Clinton si è giocata la carta del genere solo nella parte finale della sua campagna elettorale. Ma l’indizio maggiore di questa volontà di rivalsa tra l’elettorato maschile di tutte le classi – e anche tra quello femminile che vede nella liberazione della donna dai vincoli patriarcali una minaccia per la stabilità della propria collocazione familiare – è il fatto che a sostegno di Trump siano scesi in campo, come a suo tempo con Berlusconi, i settori più estremisti del fondamentalismo cristiano: soprattutto protestante negli Usa, o cattolico – quello di Comunione e Liberazione, ma non solo – in Italia.

Ma lo stesso succede in molti altri paesi dell’Europa, soprattutto dell’Est. Non c’è stato un semplice «passar sopra» ai vizi conclamati dei loro leader, bensì il riconoscimento, forse inconsapevole, che l’ostentato maschilismo del leader, e non solo suo, è la conferma della riconquista di un potere maschilista e patriarcale sulle donne, che funziona innanzitutto come risarcimento per la perdita di diritti, di benessere e di potere nella vita «globalizzata». Il senso di questa rimonta del maschilismo è confermata dall’aumento verticale dei femminicidi: il Kukluxklan del maschio che lincia la «propria» donna disobbediente.

Per questo razzismo e maschilismo risultano intrecciati anche nel nostro occident e l’affermazione di uomini come Trump, o l’avanzata dei suoi omologhi europei recano il segno del ripiegamento verso un fondamentalismo occidentale – dove molta parte del cristianesimo, quella non a caso avversa al magistero ecumenico di papa Francesco, gioca un ruolo identitario fondamentale – nei cui confronti la partita decisiva non si potrà giocare senza una vigorosa ripresa del movimento femminista.