Poeta, saggista, drammaturgo di Teatro dei burattini, Freddy Nanez è il Ministro venezuelano per la Cultura. Nei suoi lavori emergono come temi portanti l’incidenza del caso nella storia e la necessità della scelta. Capelli raccolti a codino e occhi mobilissimi, dimostra molto meno dei suoi 39 anni. Ci riceve nel suo ufficio a Caracas, tra qualche ora partirà per la Colombia per mettere a punto i dettagli del 13mo Festival mondiale della poesia, che si svolgerà in tutti gli stati del suo paese da domani al 2 luglio, in collaborazione con il Festival di Medellin, e che accoglierà poeti dai cinque continenti. Il Venezuela, come l’Italia, è popolo di poeti e cantori. Durante recital e presentazioni di libri, non si ritrovano però pochi affezionati, ma piccole folle che leggono e partecipano sotto i murales che dicono «Essere colti per essere liberi», ricordando la frase di José Marti. Al Festival di Teatro, che si è concluso il 12 giugno nella capitale, hanno assistito oltre 21.000 spettatori, e il 28 si consegneranno i premi alla Critica teatrale. Il Venezuela è il primo paese al mondo che, già nel 2010, ha ricevuto dall’Unesco una valutazione di 96 punti su una scala di 100 per le mete raggiunte in materia educativa, tanto che oggi figura quinto per numero di matricole universitarie.

I giornali di mezzo mondo scrivono che il Venezuela è in piena crisi umanitaria. Epperò il suo governo continua a destinare oltre il 70% delle entrate ai progetti sociali e il bilancio per la cultura quest’anno ha ricevuto altri 523 milioni di bolivar. Invece, in Brasile, il governo Temer – che ha sostituito quello di Dilma Rousseff – ha addirittura soppresso il ministero della Cultura, considerandolo il primo taglio necessario alla «ripresa». Quale orientamento vi guida?

La cultura e l’arte in tutte le sue espressioni attraversano ogni ambito della vita, soprattutto quello politico. Ogni politica genera un’estetica e ogni arte incarna o stimola un progetto politico. Faccio parte di un gabinetto che, dal 6 gennaio, ha il compito collettivo di radicalizzare la nostra rivoluzione, ripensare modalità e pratiche delle politiche pubbliche dopo il rovescio elettorale che abbiamo subito il 6 dicembre, perdendo la maggioranza in Parlamento. Il chavismo riesce a tenere insieme molte diversità e Maduro le sta articolando per questa nuova sfida. Il ministero della Cultura si concepisce come movimento sociale nel governo, con il compito di ri-semantizzare il discorso della rivoluzione, rifondarne l’estetica e l’immaginario. Siamo abituati a una rimessa in discussione permanente. Il rovescio elettorale, che al 90% è conseguenza della guerra economica dei poteri forti, ci obbliga ad analizzare anche il dato soggettivo che l’ha generata. Per prima cosa abbiamo convocato tutti i movimenti culturali per affrontare insieme le nuove sfide, trovare nuovi codici espressivi. I ministeri di cultura non generano rivoluzione culturale, ma devono favorire il processo organico che la produce, intercettare e portare a sintesi le molteplici sensibilità che la anticipano. Scontiamo l’eredità pesante del colonialismo, che si è innervata alla cultura della rendita di uno stato petrolifero come il nostro. Abbiamo fatto moltissimo nell’imporre equità e uguaglianza laddove dominanavano ingiustizia e disuguaglianza, concetti propri al mercato capitalista. Uno dei principali capitoli della Costituzione bolivariana riguarda la democratizzazione dei beni e della produzione culturale, e questo lo abbiamo raggiunto, così com’è stata valorizzata la cultura popolare che è alla base della nostra identità. Ma non tutto è diritto e legge. A livello di una rivoluzione simbolica che sostenga il processo di liberazione siamo ancora indietro. Sul piano economico, stiamo lavorando per liberarci dalla dipendenza del petrolio e dal ricatto delle grandi imprese di importazione. Uno dei punti forti risiede nell’esperienza ancestrale del conuco, un sistema di produzione agricolo- comunitaria di piccoli appezzamenti, messo in ombra dalla scoperta del petrolio. Un’esperienza di resistenza militare, culturale e territoriale dei popoli originari la cui memoria non è venuta meno. A partire dalla proprietà sociale dobbiamo costruire una critica alta all’ideologia del mercato e al consumismo, una nuova egemonia della ragione e della pratica sociale, una nuova sensibilità basata sulla memoria storica. Non abbiamo ceduto di un millimetro alle ricette neoliberiste: abbiamo aumentato i salari, le pensioni, le politiche educative, generato organizzazione popolare a partire dalla sovranità alimentare, che sarà la grande sfida del pianeta nei prossimi vent’anni.

Il suo profilo giovanile è quello di un anarchico iconoclasta. Non si sente scomodo a difendere l’istituito?

Ho iniziato la mia militanza nel movimento punk. Avevamo una banda a San Cristobal. Sono stato un anarchico convinto e appassionato e sono fiero della morale rivoluzionaria che ho appreso. Ma eravamo anche molto impregnati di un antimarxismo che finiva per coincidere con le tesi liberali. Quando Chavez dirige la ribellione civico-militare del 4 febbraio del ’92 mi ci metto dentro per il gusto di partecipare – da bakuniniano – a un’insurrezione contro la quarta Repubblica. E poi comincio a vivere con la contraddizione, a studiare anche Lenin e il marxismo. In quegli anni, fondiamo anche riviste di letteratura che interrogano il canone tradizionale senza per questo gettare alle ortiche la grande cultura europea. Alla fine, insieme a una parte del gruppo, aderisco al proceso bolivariano. Partecipiamo alla costituente per nuclei di affinità con i movimenti Lgbt, con gli afro, i Senza terra. Gli altri del gruppo oggi stanno con l’estrema destra. Una delle nostre debolezze, ci dicono, è quella di non aver espulso gli oppositori, che minano la rivoluzione dall’interno. Ma quando si va al potere per la via parlamentare, senza cambiare lo stato borghese, i veri «infiltrati» siamo noi, e ne abbiamo piena coscienza. Cercare di destrutturare, bypassare, i paradigmi della democrazia liberale dall’interno, come stiamo facendo con le Misiones, le Comunas e il potere popolare organizzato, implica un processo di mobilitazione permanente, diretto da un partito con caratteristiche innovative.

La Fiera internazionale del libro, che culminerà a settembre ha come ospite la Francia. Quanto conta la cultura europea nel suo progetto?

Stiamo realizzando lo stato che Bolivar non ha potuto attuare, per dimostrare che possono esserci repubbliche non giacobine ma organizzate dagli schiavi. Le repubbliche di Toussaint Louverture, perno della nostra rivoluzione popolare: che tiene, contro tutti i pronostici. Una rivoluzione in due tempi, che ha bisogno di realizzare quante più riforme strutturali possibili in minor tempo per costruire consenso e lavorare sul più lungo periodo. Sul piano della cultura, siamo molto più vicini alla Francia che, per dire, alla Colombia. La Filven sarà anche occasione per dare visibilità ai progetti culturali delle case editrici alternative e per ribadire la nostra piena solidarietà alle proteste popolari in Francia. E poi, oggi Alain Badiou è il mio filosofo preferito, quando – riprendendo Hegel e il marxismo – dice che la verità (lui ne evidenzia quattro) è un progetto fondamentale da cui non si può prescindere. E che non tutto è relativo come ha voluto far credere la cultura del frammento. Per inventare e reinventare abbiamo bisogno di una filosofia che pensi il mondo in cui viviamo e di una estetica che ne rielabori la percezione. Un progetto che trascenda in un progetto superiore il narcisismo dell’individuo. Una filosofia rivoluzionaria da contrapporre al «giornalismo» come linguaggio quotidiano del conflitto, che è la vera «narrazione» del momento.