La Spezia, 26 novembre 2015. «Mi sento come un frutto esotico», afferma Hrair Sarkissian (Damasco 1973, vive e lavora a Londra) tra l’ironico e il rassegnato alla fine della lunga giornata trascorsa a La Spezia in occasione dell’inaugurazione della mostra «Back to the future», curata da Filippo Maggia presso la Fondazione Carispezia (fino al 21 febbraio 2016).

Il percorso espositivo – prima personale in Italia del fotografo siriano – rispecchia il rigore formale e una certa austerità propria del linguaggio di Sarkissian che, ben lontano dalla spettacolarizzazione di soggetti come la guerra, la memoria, lo sradicamento, l’esilio è declinato piuttosto in chiave metaforica. Spesso è l’architettura a tradurre visivamente il substrato di emozioni: paura, dolore, disagio, incertezza.

In «Construction» (2010), entrata a far parte della collezione della Fondazione Carispezia, ad esempio, egli ha fotografato le tavolette di legno del gioco di costruzioni Kapla per dar forma al ricordo immaginario di un luogo fisico, il villaggio nella Turchia dell’est da cui fuggì suo nonno durante il genocidio degli armeni del 1915.

«Si tratta di un lavoro molto simbolico, frutto della mia immaginazione elaborata ascoltando le storie di mio nonno. Ho scelto il legno anche perché è più fragile. I pezzi non sono incollati, ma semplicemente assemblati, basta un tocco per far crollare tutto. Allo stesso modo la scelta di poggiare le foto senza fissarle alla parete con i chiodi riflette questa stessa idea di precarietà», spiega Sarkissian. Una memoria labile per nulla idealizzata – quindi – ma rivisitata attraverso la fantasia, diversamente dalla serie di quarantacinque ritratti maschili («Zebiba») che si moltiplicano riflettendosi nei due grandi specchi della sala centrale della Fondazione Carispezia. Il lavoro, che nella sua totalità arriva al centinaio di scatti, è stato realizzato nel 2007 per le vie del Cairo in tre diversi negozi abbandonati trasformati per l’occasione in studi fotografici. Come un terzo occhio, a catturare lo sguardo, è quel callo-cicatrice in mezzo alla fronte che mostrano con orgoglio gli zelanti musulmani che pregano cinque volte al giorno, sbattendo la fronte sul tappeto della preghiera e sfregando il segno con succo di limone o cipolla per ravvivarlo.

Ancora ritratti maschili nella serie «Sarkissian Photo Center» and «My Father & I» (2010), dove riconosciamo il volto a colori di Hrair, ultimo cliente del laboratorio di suo padre (ritratto in bianco e nero), che lo aveva preceduto nella professione di fotografo. Lui era un fotografo commerciale già alla fine degli anni ’50, lasciò Aleppo e un lavoro da meccanico che lo faceva tornare a casa sempre sporco di grasso per cimentarsi con un mestiere «più pulito» che gli avrebbe dato grandi soddisfazioni tanto da arrivare, vent’anni dopo, ad avere il primo laboratorio a colori di Damasco. Un passaggio del testimone solo parziale, però, perché Hrair ha cercato altri significati nella fotografia guardando oltre l’evidenza.

La parola futuro ricorre nei titoli delle tue mostre. Per questa prima personale italiana è «Back to the Future», recentemente per quella londinese alla Mosaic Rooms era «Imagined Futures». In un lavoro come il tuo, fortemente legato alla memoria, come viene orientato lo sguardo verso il futuro?

Come artista sono molto più concentrato sulla memoria, non sono intenzionalmente proiettato verso il futuro, anche – e soprattutto – perché sono siriano di origine armena. La ragione per cui ho introdotto la parola futuro nei titoli delle mie mostre è molto più cinica. Perché si creano delle aspettative per il futuro, eppure quello che sta avvenendo ancora oggi nel mio paese somiglia a ciò che abbiamo già vissuto. Trovo che sia triste che non si impari nulla dalle tragedie del passato, ma si continuino a ripetere le stesse cose.

All’architettura affidi spesso il ruolo di testimone della storia, anzi delle storie che si sovrappongono, creando una stratificazione che assume significati diversi. Architetture dislocate in spazi urbani come «Execution Squares» (2008) che inquadrano le piazze di città siriane testimoni di pubbliche esecuzioni, come pure gli edifici mai portati a termine e abbandonati, o comunque mai abitati, come in «Unfinished» (2006), «Stand Still (2009-2010)», «Construction» (2010), «Transparencies» (2012). Nella tua ricerca quanto è importante l’approccio empatico con i luoghi e come vengono bilanciate le emozioni rispetto alla componente razionale?

Quando più, quando meno, le architetture sopravvivono alle persone che le hanno costruite, attraversando il passato, il presente e forse anche il futuro. Questo è il motivo per cui attribuisco all’architettura una credibilità superiore a quella degli individui. Ma non è qualcosa di diretto. È nelle pietre stesse che non smettono mai di assorbire la storia, in un certo senso si umanizzano.

Nel video «Homesick» (2014) arrivi a distruggere con le tue mani il modellino del palazzo di Damasco dove sei nato e cresciuto e dove vivono tuttora i tuoi genitori. In questo gesto violento c’è una protesta in cui possiamo leggere anche una volontà di riappropriazione del destino?

Non volevo fare un lavoro direttamente connesso con la guerra e con quello che sta succedendo ora in Siria. Ho costruito il modellino del palazzo dove i miei genitori continuano a vivere perché ho paura che possa succedere qualcosa, potrebbero morire, oppure l’edificio essere colpito da un missile e venire distrutto. Questo è un primo livello di lettura del lavoro, legato alla mia paura. Poi c’è un secondo livello più scaramantico, è una sorta di rito vudù per esorcizzare quella paura. Si tratta di un lavoro molto personale, ma che può diventare più universale perché sono cose che possono succedere a tutti, non solo in caso di guerra, ma a causa di disastri naturali e altri fattori.

Colpisce come nell’intero corpus del tuo lavoro fotografico il vero soggetto sia il silenzio. Anche in «Unexposed» (2012), esposto alla 56a Biennale di Venezia (2015) nel Padiglione dell’Armenia (Armenity), vincitore del Leone d’Oro per la migliore partecipazione nazionale. In questo contesto affronti il genocidio degli Armeni – una storia che ti appartiene – focalizzandoti sui discendenti che si convertirono all’Islam per scampare al genocidio del 1915 e che oggi, avendo riscoperto le loro radici, si sono riconvertiti al cristianesimo ma risultano invisibili sia per la società turca che per quella armena…

Il silenzio… intanto perché sono una persona silenziosa, non mi piace urlare. Ho provato a creare uno spazio in cui l’osservatore, guardando l’immagine, possa riflettere su ciò che è accaduto. Inoltre, la situazione che descrivo in questa serie è decisamente silenziosa, perché quelle persone devono nascondersi, non possono rivelare la loro vera identità. La religione musulmana vieta la conversione ad un’altra religione e molti di loro, soprattutto quelli che vivevano nei villaggi e piccoli centri dell’Anatolia dell’est, quando si sono riconvertiti al cristianesimo si sono dovuti trasferire a Istanbul per evitare ripercussioni e poter frequentare le chiese armene, essere battezzati e cambiare anche i loro nomi. Ma la cerchia che frequentano è piuttosto limitata, la domenica si incontrano sempre fra loro per pregare nella chiesa. Allo stesso tempo non sono accettati dalla comunità armena. Il governo turco, ad ogni modo, ha paura che la comunità armena possa diventare molto forte. Per completare questo progetto, che è stato realizzato nel 2012, mi ci sono voluti tre anni. Una delle ragioni che mi ha portato a lavorare in questa direzione è stato riflettendo sull’identità di una delle figlie adottive di Kemal Atatürk, Sabiha Gökçen, celebre aviatrice turca e prima pilota femminile da combattimento, quando si scoprì la sua origine armena. Questo caso molto discusso fece aprire gli occhi a tutte quelle persone che avevano perso traccia delle proprie origini. In Turchia spesso erano proprio i genitori, o gli avi, a rifiutarsi di trasmettere ai discendenti informazioni sulla loro origine armena per proteggerli da un conflitto interno tra le due identità, quella turca – che ha sempre negato il genocidio – e quella armena. Cancellando la storia ne hanno creata un’altra.

Torniamo al concetto di memoria e a come in «Istory» (2011), durante una residenza ad Istanbul confrontandoti con la storia armena, tu abbia deciso di fotografare in vari archivi e biblioteche della città – dal Topkapi alla Biblioteca Atatürk, fino agli Archivi Ottomani – la quantità dei libri, rinunciando piuttosto alla definizione dei singoli volumi. C’è, forse, una consapevole volontà di affrontare queste pagine drammatiche della storia in una chiave più universale?

No, è stata una decisione forzata. Nei luoghi che hai nominato, soprattutto quelli pubblici, non mi è stato permesso toccare i libri, né aprirli. In molti mi è stato addirittura vietato l’ingresso per via del mio nome che è così armeno che faceva scattare immediatamente un click. In alcuni casi sono stato anche seguito da guardiani che, benché mostrassi loro una lettera di referenza, controllavano tutte le foto che avevo scattato per essere sicuri che non stavo facendo altro.

La conoscenza della fotografia che – come affermi anche nel tuo website «è un mezzo per raccontare storie che non sono immediatamente visibili in superficie» – passa attraverso l’esperienza del laboratorio paterno, come vediamo nelle serie «Sarkissian Photo Centre» e «My Father & I» (2010). Lì hai lavorato per anni prima di trasferirti ad Arles e Amsterdam, dove nel 2010 ti sei diplomato in fotografia alla Gerrit Rietveld Accademie di Amsterdam. Quale è stato l’insegnamento di tuo padre e quali erano le potenzialità e i limiti che avvertivi nella fotografia di studio?

Considero mio padre e il lavoro nel laboratorio la mia accademia. Ho imparato molto lì, non solo sulla fotografia anche sulla vita. Anche quando ero un ragazzino, non ricordo di aver trascorso vacanze estive ma ero solito andare nel negozio e rimanere lì a lavorare. All’inizio, quando ero poco più che un bambino, facevo il ragazzo di bottega che preparava il caffè e puliva. Crescendo ho continuato a trascorrere molto più tempo nel laboratorio che a casa. Quando, poi, ho finito le superiori è stato mio padre a dirmi di continuare a studiare prima di prendere la decisione di lavorare con lui. Per una settimana frequentai l’università, ma dopo me ne tornai al laboratorio dove sono rimasto per 11 anni, finché non è arrivato il momento in cui ho sentito che non potevo andare avanti. Volevo fare il fotografo, ma in una maniera diversa. Frequentando l’Istituto Culturale Francese di Damasco seguii alcune conferenze di fotografi francesi. Fu uno shock, ad esempio, vedere il lavoro di Patrick Tosani che aveva fotografato i cucchiai o le unghie. Lo trovavo assurdo e mi chiedevo cosa volesse dire. Per una settimana feci anche l’assistente a Sophie Ristelhueber, fu lei a dirmi che avrei dovuto lasciare il negozio di mio padre. La mia decisione mi portò a uno scontro con lui, per il quale – opinione ancora comune in Siria – fotografare non è un lavoro artistico. E l’arte non dà da mangiare! Ma io dovevo andare via.

Cos’è che fin da bambino ti attraeva nello studio fotografico?

Il solo guardare le immagini nutriva la mia conoscenza. Mio padre era abbonato a varie riviste francesi, ricordo Le Photographe che non credo che esista più. Non conoscevo il francese, ma mi bastava sfogliare la rivista e vedere la grafica, le foto. Poi andavo sempre a curiosare nel ripostiglio di mio padre e giocavo con le sue macchine fotografiche. Così è cresciuto il mio amore per la fotografia.

Il colore, in particolare, è il linguaggio che prediligi…

Ho fatto solo un lavoro in bianco e nero. Inconsciamente mi sento molto più connesso alla realtà quando fotografo a colori, anche dal punto di vista estetico.

Osservare da Londra, dove vivi dal 2011 – quindi a distanza di migliaia di chilometri – l’attuale situazione politica in Siria e Medio Oriente, e il coinvolgimento dell’Europa, anche rispetto alle recenti stragi di Parigi, ti permette di avere uno sguardo più lucido?

Ci sono migliaia di chilometri ma non mi sento così lontano dalla Siria, perché anche se non sono lì fisicamente – del resto sono andato via abbastanza di recente – sono coinvolto emotivamente con il paese, perché i miei genitori vivono lì ed è in Siria che sono cresciuto. I problemi che vediamo oggi sono il frutto di una guerra che va avanti da cinque anni. Quindi i più recenti sviluppi non sono altro che l’avanzamento di una situazione già esistente. Non sembra, del resto, che i governanti stranieri ricordino che prima dell’attuale dittatore c’era il padre, che lo è stato per trent’anni!