Fin dalle prime inquadrature, «delimitate» dalla voce del narratore, che ne è anche protagonista, il nuovo film di Edgar Reitz dichiara la sua scommessa che è quella di rendere immagine il potere della parola. «Cronaca di un sogno» dice il sottotitolo di Die Andere Heimat – in sala solo il 31 marzo e il 1 aprile grazie a Nexo Digital, Ripley e Viggo Film, un evento imperdibile – non più dunque la «Cronaca della Germania» che erano gli Heimat della popolarissima serie. L’altra Heimat è infatti una terra sognata, quell’altrove sul quale i contadini tedeschi devastati da guerre, miseria, vessazioni di classe proiettano come su uno schermo biancole speranze di una vita migliore.

E i contorni di quel mondo che coincide storicamente con il Brasile, dove fuggirono centinaia di tedeschi (spinti anche dalle stesse istituzioni ben felici di allontanare eventuali pericoli di rivolta alimentati dalla fame) arrivano dai libri. Le pagine dei viaggiatori o dei narratori che parlano di paradisi popolati da specie strane di uccelli, di primavere senza fine mentre loro muoiono nel gelo, di ricchezza e abbondanza, di popoli misteriosi e seducenti … Reitz, autore della sceneggiatura insieme a Gert Heidenreich torna dunque nei luoghi di Heimat, anche se la famiglia Simon protagonista di questo, dal figlio sognatore Jakob – il bravissimo Jan Dieter Schneider, uno studente trovato per caso dopo un lungo casting – al padre di Jakob, il fabbro inasprito con quel ragazzo che pensa solo a leggere, al fratello Gustav che gli ruberà sogni e amore, all’amata madre sua complice, fino alla bella Jettchen (Antonia Bill) di cui Jakob si innamora, possono essere considerati i progenitori dei Simon di Heimat.

Il paesino è sempre Schabbach, nell’Ottocento borgo sperduto e distrutto dalla carestia che fa morire bimbi e adulti. I contadini lavorano per ottenere poco e nulla, e mentre i loro figli si ammalano e vengono sepolti nella nuda terra scoprono l’esistenza di altri Paesi dove tutto sembra più facile, dove felicità e benessere sono a portata di mano. Gli imbonitori attraversano i villaggi, promettono tutto&subito, basta firmare come in una Spoon River e col pezzo di carta ti arrivano ettari di terreni e onorificenze.

Jakob nei libri cerca le immagini di quel mondo, trascrive gli idiomi degli indigeni e li compara in scambi di lettere con gli eruditi del suo tempo, increduli quando scoprono che quel ragazzo è giovanissimo, vive in un posto sperduto, è il figlio del fabbro in una comunità contadina e soprattutto è autodidatta. Jakob legge ogni lingua, allenato dal bilinguismo della regione ove si parla anche francese, e la vicinanza con la Francia ha portato con sè anche l’eco della Rivoluzione (siamo nel 1844), i giovani contestano l’imperatore e i suoi severi editti, chiedono giustizia sociale contro l’oppressione. Jakob impara anche lui che la sorte di ciascuno non è affare di dio ma degli uomini e si può combattere per cambiarla, confusamente mescola la sua rivolta all’utopia di quell’altrove che in sé contiene tutte le risposte all’ingiustizia della realtà.

Del resto anche il paese di Schabbach è immaginario, luogo dell’anima o della memoria che sorge in quell’oscillazione tra il vissuto del regista, nato in quella regione, e la sua presa di distanza. Solo lui conosce il modo per arrivarci, come nel film verso il finale ci mostra lo scambio tra Werner Herzog, nei panni del sapiente von Humboldt, e lo stesso Reitz in quelli di un contadino della zona che gli indica il cammino.
Questo contrappunto di riflessi, e la scelta esplicita del punto di vista di Jakob come riferimento non solo narrativo ma anche visuale ci dicono di un gioco infinito dell’immaginario, in cui la sfida dell’immaginazione produce realtà, Storia, storie più vere nel loro essere messinscena.

Nel suo bianco e nero, tagliato da sciabolate di luce, omaggio impossibile al cinema del passato, e da improvvisi punti di colore Reitz indaga la natura dell’affabulazione, conducendoci nei sentimenti e nei desideri che appartengono al patrimonio collettivo dell’umanità. La sua scommessa ha il respiro di un’avventura appassionante che si immerge nel potere dell’immaginario, in quel desiderio pericoloso di inventare altri mondi. Pensando che la rivoluzione può nascondersi anche in un riflesso di luce sulla pietra d’agata.